Restauro o ristrutturazione? Un dilemma per i centri storici
Dopo la sentenza della Cassazione sul Palazzo Tornabuoni, a Firenze va in scena un dibattito che potrebbe portare chiarezza nel recupero dell'edilizia
[19 Aprile 2018]
Restauro sì ma anche ristrutturazione, seppur limitata, per l’edilizia storica. Così ha deciso il 16 aprile il Consiglio comunale di Firenze, coi voti della maggioranza Pd, adottando la contestata Variante al Regolamento urbanistico che introduce la ristrutturazione tra le categorie con le quali si può intervenire sull’edilizia storica. Per ora e sino alla definitiva approvazione, probabilmente a luglio dopo l’esame delle osservazioni, su questi edifici si interviene solo col restauro e risanamento conservativo.
Il restauro tende alla conservazione del bene ma viene inteso dalle amministrazioni in maniera flessibile, tollerando modifiche interne. Le attuali norme del Regolamento urbanistico fiorentino prescrivono difatti per il restauro: il mantenimento della sagoma, dei prospetti sulla pubblica via, della quota dei solai, e della distribuzione interna principale, come corpi scala e androni. In altre parole la distribuzione interna secondaria può essere modificata.
Di diverso parere è la magistratura, che interpreta il restauro come riportare l’edificio allo stato originario. La sentenza 2395 del 6/6/2016 del Consiglio di Stato così recita: “gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non si configurano né come manutenzione straordinaria, né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia”.
La sentenza 6873 del 14/2/2017 della Cassazione sul restauro del fiorentino palazzo Tornabuoni, trasformato in un residence di lusso ha improvvisamente riunito i due sentieri, della prassi urbanistica e della giurisprudenza, sentenziando che il cambio di destinazione d’uso configura una ristrutturazione edilizia. Nei centri storici, come Firenze, in cui solo il restauro è ammesso, questo ha portato al blocco dei cantieri sino a che, nel giugno 2017, con una modifica al Testo unico dell’edilizia, il Dpr 380/2001, il cambio d’uso è stato introdotto nella definizione di restauro, ma senza nulla dire sulle trasformazioni interne che in genere questo comporta.
Da qui il problema che si pone a una amministrazione che voglia evitare guai giudiziari: introdurre o meno la categoria della ristrutturazione per permettere la parziale trasformazione interna degli edifici storici non più realizzabile col solo restauro.
A Firenze, dove con l’adozione della Variante si è intrapresa questa strada, intervengono le opposizioni di sinistra che ritengono un attentato all’integrità del patrimonio storico l’introduzione della ristrutturazione, una categoria di intervento tendente alla trasformazione radicale che tuttavia nella Variante fiorentina viene molto limitata.
Le limitazioni, che non riguardano gli edifici notificati la cui tutela è rimandata alla Soprintendenza, escludono dalla ristrutturazione: la demolizione, l’aumento di volume, il mutamento della sagoma e la modifica della distribuzione principale (corpi scale e androni). Cambia la norma sul prospetto sulla pubblica via del quale le limitazioni impediscono la modifica ma solo “sostanziale”, e sulla quota dei solai, da mantenere solo quando non siano “privi di interesse”. Viene meno invece il mantenimento degli elementi tipologici previsto dal restauro.
Rimettere il controllo delle ristrutturazioni degli edifici notificati nelle mani della sola Soprintendenza, tende a sgravare di responsabilità il Comune. E’ corretto in linea di principio ma andrà valutato in corso d’opera sul piano pratico, e comunque un doppio controllo in questi casi sarebbe auspicabile.
La Variante va tuttavia valutata nel contesto del Regolamento urbanistico fiorentino che prescrivere il restauro anche per l’esteso “tessuto storico e storicizzato prevalentemente seriale”, che comprende l’edilizia minore del centro storico e quella realizzata nell’800 e nella prima metà del ‘900 al di fuori del centro storico.
Stabilire delle norme uguali per un insieme di edifici così eterogeneo pone il problema dell’appropriatezza: ciò che può stare largo per gli edifici del centro storico, come ad esempio un restauro permissivo, risulta stretto per gli edifici otto-novecenteschi.
Se non si entra nei dettagli pratici del recupero dell’edilizia storica indicando le trasformazioni ammissibili e articolando la classificazione tipologica degli edifici si rischia una interpretazione discrezionale della norma che può finire nel ricorso. Una classificazione attenta degli edifici dovrebbe inoltre distinguere quelli per i quali si richiede un progetto unitario, come proposto da un emendamento di Mdp approvato in Consiglio comunale.
D’altra parte le trasformazioni edilizie comportano modifiche interne che si potrebbero impedire mantenendo la categoria del restauro resa ancora più rigorosa come chiedono le opposizioni, ma, stanti le finanze pubbliche, andrebbero indicate realistiche opportunità economiche per il recupero, altrimenti si rischia il degrado.