Terzo valico: il ministro dice sì anche se l’analisi costi-benefici dice no
Secondo le valutazioni emerse dall’apposita commissione i costi superano i benefici di 1,5 miliardi di euro, ma alla fine a decidere è (come sempre) la politica
[18 Dicembre 2018]
Il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli (M5S), a fine luglio aveva annunciato la decisione di sottoporre le grandi opere ad «una attenta analisi costi-benefici». Nominata a settembre l’apposita commissione, che ha recentemente depositato le sue conclusioni per il Terzo valico, ha detto sì al nuovo collegamento ferroviario tra Genova e Novi Ligure (e quindi Milano) di 53 km, di cui 37 in galleria per superare l’Appennino.
Sembra che la razionalità prevalga sulla discrezionalità politica. E quindi vorrà dire che i benefici superano i costi? Sorpresa: è il contrario. Secondo l’analisi condotta i costi superano i benefici di 1,5 miliardi di euro. «Il progetto del Terzo Valico, – si legge nelle conclusioni dell’allegato 1 (disponibile in coda all’articolo, ndr) – pur in presenza di un importante ammontare di benefici, presenta indicatori di redditività negativi». Addirittura si aggiunge che se le risorse destinate al Terzo valico «fossero direttamente spese dai consumatori per l’acquisto di beni o servizi, il beneficio conseguito sarebbe con certezza superiore alle risorse impiegate».
E allora perché il ministro ha deciso per la continuazione? A causa dei costi di recesso, che ammonterebbero almeno a 1,2 miliardi, come risulta dalla relazione giuridica. Ma se recedere costa 1,2 miliardi di euro mentre realizzare l’opera porterebbe un costo netto di 1,5 miliardi di euro allora se ne dovrebbe concludere che non realizzarla porterebbe comunque a una minore perdita di 0,3 miliardi di euro.
Al di là dei meriti dell’opera in questione, è interessante osservare il metodo decisionale, ma per comprendere bene la questione occorre un rapido riassunto del problema finanziario. Il costo totale dell’opera ammonta a 6,1 miliardi di euro. Di questi ne sono stati spesi 1,5 per realizzare parte del progetto, e il costo della conclusione dell’opera è di 4,6 miliardi di euro.
Quindi il problema della decisione di investimento è: conviene continuare a investire spendendo 4,6 miliardi di euro in più ed ottenere un’opera che ha un valore negativo di 1,5 miliardi, oppure spendere 1,2 miliardi in più e lasciare tutto com’è? Nel secondo caso la cifra spesa sinora (1,5 miliardi di euro) verrebbe totalmente persa. Ma questi sono, come riconosce la relazione tecnica dei “costi affondati” o irrecuperabili, che la teoria economica riconosce non influenti nelle decisioni di investimento future, anche se può apparire contro-intuitivo.
Il ministro nella sua pagina Facebook cita le spese già sostenute dicendo che, in caso di non continuazione il miliardo e mezzo di euro «sarebbe speso per nulla», e poi così motiva la decisione di continuare: «Il totale dei costi del recesso ammonterebbe a circa 1 miliardo e 200 milioni di euro di soldi pubblici. Di conseguenza il Terzo Valico non può che andare avanti».
Viene da chiedersi a cosa sia servita l’analisi costi benefici, se non come lavoro propagandistico per dimostrare che le decisioni prese dai precedenti governi erano, secondo questa analisi, errate. Bastava l’analisi giuridica che, per quanto complessa, prende meno tempo. Si sarebbe arrivati a conclusione nel giro di un mese.
In sostanza cosa ha fatto il ministro? Tralasciando il parere del “popolo” e dunque anche dei comitati contrari alla realizzazione dell’opera, ha dato l’incarico di redigere l’analisi costi benefici al prof. Marco Ponti che nel 2014 ne aveva già fatta una analoga concludendo per la valutazione negativa. Poi ha dato l’incarico di calcolare i costi di recesso, che vengono stimati approssimativamente in quanto sottoponibili ad eventuali controversie giudiziarie. Infine prende una decisione che è sostanzialmente politica e che consiste nel considerare, senza dirlo esplicitamente, i costi affondati come facenti parte del calcolo economico per la redditività dell’investimento futuro.
Il motivo politico sembra abbastanza semplice, e potrebbe consistere nel fatto che la Lega vuole che siano realizzate le infrastrutture e in particolare quelle del nord, come il Terzo valico e la Pedemontana. In Liguria la Lega insieme al centrodestra governa sia la Regione che il Comune di Genova, e gli operai delle ditte che lavoravano all’opera si erano mobilitati per difendere il posto di lavoro e minacciavano di andare a protestare sotto la casa di Beppe Grillo. Difficile dunque dire di no all’opera.
Ovviamente nulla da eccepire dal punto di vista del metodo, dato che il ministro ha una funzione politica. Il problema è che dando l’assenso si va contro l’analisi costi-benefici invocata come la risolutrice del problema decisionale, della quale si nega ogni risvolto operativo. Non solo, ma in campagna elettorale il vicepremier Di Maio aveva promesso che avrebbe bloccato l’opera, dicendo «prenderemo i 6 miliardi dell’opera e li investiremo nel trasporto pubblico locale». Forse non sapeva quanto si era speso nell’opera, oppure non pensava ci fossero costi di recesso? Tutto questo era naturalmente secondario nel caso in cui lo scopo principale, politicamente legittimo, sia stato quello di conquistare i voti dei contrari all’opera. Che ora però chiamano traditori i 5 Stelle, come nel caso del Tap in Puglia.