Sabine Réthoré ha disegnato una carta del Mare Nostrum orientata secondo l'asse ovest-est
Mediterraneo, un’artista diviene geografa per disegnare la diversità
Una sorta di grande autostrada liquida percorribile in tutti i sensi da una costa all'altra per le relazioni commerciali o per le guerre, ma che ora balza alle cronache soprattutto per i fatti legati ai flussi migratori
[22 Gennaio 2019]
Salvo che per i terrapiattisti, per i quali che la Terra sia ritenuta sferica è il risultato di un complotto ordito dalla Nasa, il nostro pianeta è simile a una grande palla. Tuttavia le rappresentazioni che ne diamo stanno in genere e per comodità su dei fogli in due dimensioni. Non solo, oramai da qualche secolo abbiamo deciso, da quando ci si orienta con la bussola che indica il nord, che dobbiamo vedere la Terra dal nord al sud, dall’alto verso il basso.
Ma c’è un’artista francese, Sabine Réthoré, che vuol sovvertire questa convenzione ritornando a un modo più libero di rappresentare la superficie terrestre. Già ci aveva pensato Stuart McArthur, un australiano che nel 1979 aveva creato una mappa del mondo all’inverso, con il sud in alto, con lo scopo di porre l’Australia al centro della carta. Réthoré è più radicale e propone di usare una orientazione est-ovest, con l’ovest, che segue il corso del sole, in alto, al contrario di quello che si faceva in epoca medievale quando l’est stava in alto e indicava Gerusalemme, la città santa. Lo scopo non è quello di fare delle copie del mondo, ma di «interpretarlo e così moltiplicarlo in varianti e proposte sempre rinnovate».
La carta meglio riuscita di Sabine sembra essere quella del Mediterraneo “senza frontiere”. Un mare che è una sorta di grande autostrada liquida percorribile in tutti i sensi da una costa all’altra per le relazioni commerciali o per le guerre, ma che ora balza alle cronache soprattutto per i fatti legati ai flussi migratori. Nella carta tradizionale col nord in alto, il Mediterraneo sembra dividere l’Europa dall’Africa; nella carta orientata est-ovest si apprezzano invece le brevi distanze tra le coste nord e sud, e si spiegano gli ovvi contatti cui nei secoli hanno dato luogo.
Ma Sabine Réthoré si spinge oltre sino a domandarsi perché la Terra debba essere vista dal cielo, che è tipicamente lo sguardo della divinità e non dal profondo della Terra dove idealmente si trovano gli Inferi. Per rendere realistico il punto di vista, senza rievocare i viaggiatori al centro della Terra di Jules Verne, ci si può immaginare la visuale di un pesce che nuota nelle profondità marine e guarda il profilo dello coste. Ne viene fuori una rappresentazione specchiata di quella comunemente in uso, che lascia l’osservatore interdetto.
Uno stop quindi all’unicità del punto di vista cui siamo abituati nel vedere lo spazio geografico. Si tratta del prospettivismo che è apparso nella cultura occidentale con Gottfried Leibniz e poi con Friedrich Nietzsche. Insomma la percezione è possibile solo attraverso la propria prospettiva e interpretazione, non ne esiste una superiore alle altre, e la conoscenza si forma dinamicamente sfruttando la differenza tra una prospettiva e l’altra.
Questo vuol dire che si può accettare che la Terra sia piatta come un particolare punto di vista? Certamente no! La Terra è rotonda ma proprio il suo essere una sfera la rende un oggetto ugualmente visibile da un infinito numero di punti, e interpretabile in tanti modi. Non esiste una rappresentazione corretta come se il resto non fossero altro che eresie. Come quando nel 1972 l’Apollo 17 fotografò la Terra da 45mila km. Ma da quel punto di vista l’Africa appariva “capovolta” col sud in alto e per questo motivo la foto fu corretta girandola secondo la più accettata rappresentazione.
Il problema non è quello di stabilire un unico modo di vedere le cose, ma capire che tanti modi di interpretare si riferiscono alla stessa cosa arricchendola, come nel caso della stella del mattino, Lucifero, e della sera, Vespero, problema di identità del pianeta Venere sollevato da Gottlob Frege. Si tratta in fondo del vecchio tema dell’unità nella diversità tanto caro anche a Giorgio La Pira, promotore nel 1958 dei Colloqui mediterranei, e che nel Mediterraneo vedeva «una sorgente inestinguibile di creatività, un focolare vivente e universale dove gli uomini possono ricevere le luci della conoscenza, la grazia della bellezza e il calore della fraternità».