L’incertezza va affrontata ragionando per scenari e con un atteggiamento prudenziale
Coronavirus, economia ecologica e saggezza popolare contro il panico
Ovvero, “meglio ave’ paura che toccanne”? Allentare le restrizioni per “far ripartire l’economia” non è una scelta senza rischi ma una scommessa, anche per l’economia stessa
[2 Marzo 2020]
Il detto toscano riportato nel sottotitolo di questo articolo – un invito alla prudenza che suggerisce la ritirata quando il nemico è più forte di te e rischi di prenderle (toccanne) – riassume quello che dovrebbe essere il razionale atteggiamento di fronte all’epidemia di coronavirus. Purtroppo, nel dibattito odierno, questo atteggiamento di normale prudenza è tacciato di irrazionalità. Perché?
La mia riflessione parte dal fatto che la nostra società sembra aver perso la coscienza del limite – una società sempre più affetta da un delirio di onnipotenza e persino forse da schizofrenia nel senso proprio del termine. Da un lato vogliamo l’accesso a ospedali ben funzionanti e buone cure, dall’altro dimentichiamo che queste hanno costi elevati, da finanziare con le tanto odiate tasse. Eppure, proprio grazie alle tasse la salute in Italia non solo è a livelli in genere elevati, ma è anche un diritto – al contrario di quanto avviene in molti paesi in cui è un privilegio dei pochi che possono pagarsi l’assicurazione sanitaria. Ancora, gridiamo “libertà” dimenticando la prima lezione di educazione civica: “la mia libertà finisce dove comincia quella degli altri”.
La mistificazione che abbiamo raggiunto è tale per cui chiamiamo “libertà” persino la possibilità per un potenziale contagiato di salire su un treno o di entrare in un bar col rischio di contagiare i presenti.
E se riflettessimo, capiremmo anche che quella riapertura immediata delle scuole, fabbriche e attività produttive – richiesta a gran voce in nome del dio denaro e del Pil – infliggerebbe gravi danni economici agli altri. Come? Misure lasche porterebbero a un acuirsi dell’epidemia, magari tra qualche settimana, e a un suo consistente allargamento geografico. È sensato voler evitare le perdite di brevissimo periodo di molti rischiando di infliggere perdite elevatissime fra qualche settimana a moltissimi, quando migliaia di lavoratori in tutta Italia potrebbero rimanere a casa malati se l’epidemia si acuisse? Sbandieriamo la libertà, ma questa mi pare sia la libertà di danneggiare gli altri!
“No – obiettano in molti – non è vero, siamo solo in preda a un’isteria collettiva, si esagera, non bisogna farsi prendere dal panico, in fondo è quasi un’influenza…” È proprio il panico, forse, che annebbia la vista e ci impedisce di accettare quanto normale sia il racconto degli epidemiologi, cioè il fatto che il coronavirus è una malattia trasmissibile con una elevata probabilità di contagio e che questa probabilità può essere ridotta solo limitando i contatti tra le persone. A chi dice che i casi tutto sommato sono ad oggi pochi, la matematica risponde che se in media ciascun malato infetta duepersone, un numero minore delle stime che riguardano il coronavirus, il numero degli infetti cresce secondo la progressione geometrica di ragione due, ovvero 2, 4, 8, 16, 32, 64, 128… al passo successivo i contagiati saranno 256, poi 512, poi 1024 e così via. Poi, a chi dice che in fondo muoiono solo anziani e/o persone compromesse, chiedo se hanno contemplato tra questi anche i propri genitori o i propri nonni.
In ogni caso, la questione non è soltanto personale, ma soprattutto sociale. “Ognuno di noi ha la propria storia” mi scrive una cara amica, intendendo che i destini dei singoli sono così bizzarri e incontrollabili – morire è nella nostra natura, aggiungo io. Ma a livello collettivo è certo che quanto più si riesce a rallentare il contagio tanto più si “spalma” nel tempo il numero di casi gravi e tanto più si riesce a curarli in modo adeguato. Qualora invece avessimo simultaneamente troppi pazienti gravi, molti di questi non troverebbero posto nelle terapie intensive delle nostre strutture sanitarie. La conseguenza di un allentamento delle restrizioni è dunque ovvia: l’epidemia accelererebbe e si avrebbero tassi di mortalità più elevati. Eppure, non riusciamo a credere a queste semplici verità. Crediamo alle previsioni del tempo ma non alla banale matematica che c’è dietro alle epidemie, come si osserva in un efficace articolo di Giordano uscito sul Corriere della Sera qualche giorno fa (si vedano i riferimenti bibliografici al termine dell’articolo).
Dunque, che cosa annebbia la nostra vista? Credo che sia la generale illusione di possedere un controllo assoluto sugli eventi della nostra vita. Il ragazzo in gita scolastica cammina di notte sul cornicione dell’albergo e disgraziatamente precipita? Si dà la colpa al docente accompagnatore o all’organizzazione. Un paziente va in ospedale per un controllo e dopo qualche giorno muore? Si dà la colpa al medico… come se aver ritirato oggi l’auto dal meccanico impedisca alla stessa di avere un altro guasto domani. In ogni cosa si cerca disperatamente un responsabile, rifiutiamo la fatalità. E inoltre cerchiamo sempre una causa semplice, deterministica, avendo ormai dimenticato che già negli anni ’70 si era ben compreso quanto fosse complessa la realtà e che “un battito d’ali di una farfalla in Brasile possaprovocare un tornado in Texas”. Perso il contatto con la realtà, oggi siamo convinti che l’unico limite alle nostre azioni sia dettato dal denaro che possediamo.
Coronavirus, che fare dunque? Siamo in una situazione che ricade nella cosiddetta scienza post-normale – un concetto elaborato dagli epistemologi Funtowicz e Ravetz – ovvero una situazione caratterizzata da decisioni urgenti,posta in gioco elevata e grande incertezza. Nessuno ha la sfera di cristallo per fare previsioni e purtroppo non si può procrastinare la decisione in attesa di evidenza scientifiche certe.
La via di uscita ce la suggerisce il primo numero della rivista Ecological Economics del 1989, nell’editoriale in cui Bob Costanza argomenta che l’incertezza va affrontata ragionando per scenari e con un atteggiamento prudenziale. Vediamo in breve come. In molti casi (come per il coronavirus) si hanno solo indizi sull’effettiva gravità della situazionee dei potenziali danni, ma al tempo stesso i danni dipendono dagli interventi che le autorità adottano. Immaginiamo che si facciano due diverse stime della gravità dell’epidemia, una stima “ottimista” e un’altra “pessimista” e che si debba decidere se adottare misure di contenimento severe o blande. È chiaro che lo scenario migliore sarebbe quello di misure blande in una situazione in cui è corretta la stima ottimista, ovvero il caso in cui l’epidemia non sia poi così grave. Tuttavia, qualora risultassero corrette le stime pessimiste,le misure blande condurrebbero a esiti molto negativi – non solo in termini di mortalità e morbilità ma anche economici, per i motivi visti poco sopra. Dunque, pur senza previsioni, ma solo ragionando su scenari plausibili, ci si rende conto che lo scenario peggiore è quello appena descritto (“misure blande di fronte a un problema che si manifesterà come grave”). Chiedo al lettore allora come dovrebbe decidere il “buon padre di famiglia”. Non dovrebbe forse ridurre il rischio che lo scenario peggiore si realizzi? Sarebbe etico mettere a rischio la propria famiglia e il relativo patrimonio? Non dovrebbe forse usare il principio di precauzione?
Se scegliessimo questo modo di ragionare, scomparirebbe la contrapposizione tra “i pessimisti che esagerano” e “gli ottimisti che vogliono tornare alla normalità”. Basta con gli slogan, riflettiamo piuttosto su che cosa succederebbe nelle differenti ipotesi e chiediamo decisioni che riducano il rischio per la società nel suo complesso. Invocare il ritorno alla normalità, come se nulla fosse, serve forse per esorcizzare le nostre ansie, ma ha poco di razionale. A mio avviso piuttosto che illudersi di poter avere “botte piena e moglie ubriaca”, la razionalità ci impone di adottare il “meglio aver paura che toccanne”.
Aggiungo, come nota a latere, che un po’ di razionalità potrebbe forse aiutarci ad approfittare di questa epidemia per non voler più tornare alla normalità. Che cosa è la nostra normalità oggi? Non include anche ore e ore di pendolarismo su mezzi pubblici affollati o in automobili su strade congestionate? Malattie e morti per inquinamento? Rapporti sociali tesi e stress quotidiano? Sprechi di ogni genere, come ad esempio il fenomeno “Amazon destroy”? La nostra normalità non assomiglia forse a quella del criceto che corre nella ruota?
Tuttavia, al di là della mia irrilevante opinione personale su quanto poco sensatasia la nostra attuale “normalità”, vi è un dato oggettivo: allentare le restrizioni per “far ripartire l’economia” non è una scelta senza rischi, ma una scommessa, anche per l’economia. Se decidessimo di scommettere e le cose andassero poi male, potremmo sì morderci le mani per l’azzardo, ma non avremo diritto alcuno a lamentarci.
Riferimenti bibliografici:
Costanza R., 1989, What is Ecological economics?, Ecological Economics I, 1-7
Funtowicz S. and Ravetz J., POST-NORMAL SCIENCE – Environmental Policy under Conditions of Complexity, http://www.nusap.net/sections.php?op=viewarticle&artid=13; anche https://en.wikipedia.org/wiki/Post-normal_science
Giordano P., Coronavirus, la matematica del contagio che ci aiuta a ragionare in mezzo al caos, Corriere della Sera, 25 febbraio 2020.
Stirling A. 2013, Why the precautionaryprinciplematters, The Guardian, Mon 8 Jul 2013
Precautionary principle, https://en.wikipedia.org/wiki/Precautionary_principle (la pagina in italiano sul principio di precauzione è di cattiva qualità)
di Tommaso Luzzati* per greenreport.it
*Dipartimento di Economia e Management, Università di Pisa. Professore associato di Economia Politica e titolare del corso di Economia Ecologica (https://people.unipi.it/tommaso_luzzati/)