150.000 firme per limitare l’invasione dell’olio di palma nei prodotti alimentari
La Nutella, Segolene Royal, gli oranghi e l’olio di palma sostenibile
E’ possibile tenere insieme piantagioni e difesa della biodiversità, ma a costi più elevati
[18 Giugno 2015]
Mentre in Italia impazza il patriottico dibattito dei moltissimi ghiotti fan della Nutella, offesi dalle blasfeme dichiarazioni della ministra dell’ecologia francese Segolene Royal che si è permessa di dire in un’intervista a Canal +: «Dobbiamo ripiantare un sacco di alberi, perché c’è una massiccia deforestazione che porta anche al riscaldamento globale. Per esempio, dobbiamo smettere di mangiare la Nutella, perché è fatto con l’olio di palma» – poi naturalmente la Royal si è scusata – un team di ricercatori dell’università dell’ Università dell’ East Anglia, della Zoological Society of London, dell’università del Vermont e del Wwf dice che è possibile produrre olio di palma sostenibile, ma ad una condizione che non piacerà probabilmente a chi difendere l’onore dell’italico prodotto, anche se la Ferrero importa quasi l’80% del suo olio di palma dalla Malesia e il resto da Brasile, Indonesia e Papua Nuova Guinea.
Poi c’è anche l’altra Italia, quella delle 150 mila persone che ad oggi hanno firmato la petizione per limitare l’invasione dell’olio di palma nei prodotti alimentari. Il Fatto alimentare, che ha promosso la raccolta di firme su change.og, esulta e sottolinea che «Il traguardo è stato raggiunto dopo sette mesi. I supermercati e le aziende cambiano le ricette e i consumatori le loro abitudini di acquisto».
Già a febbraio la Ferrero aveva detto che I suoi prodotti sono fatti con il 100% di olio di palma dichiarato sostenibile dalla Roundtable on Sustainable Palm Oil (RSPO), va detto però che diverse associazioni ambientaliste mettono in dubbio questo tipo di certificazione e che anche lo studio “Conserving tropical biodiversity via market forces and spatial targeting” poubblicato su Pnas, dal team di ricercatori aglo-americani dice che comunque bisogna fare qualcosa di più rispetto alla certificazione RSPO.
Il team parte dalla constatazione che «Le terre pubbliche protette sono insufficienti per arrestare la perdita di biodiversità a livello mondiale. Tuttavia, la maggior parte dei proprietari terrieri commerciali hanno bisogno di incentivi per impegnarsi nella conservazione». Attraverso uno studio interdisciplinare lo studio esamina le piantagioni di palme da olio a Sumatra, in Indonesia, e dimn mostra che tenendo di conto sia della biodiversità che dei rapporti economici si potrebbe migliorare la situazione in aree ricche di specie inserite nella Lista Rossa dell’ International Union for Conservation of Nature (Iucn) «a costi relativamente bassi per i proprietari terrieri». Ma aggiungono che questo può avvenire solo attraverso un aumento dei prezzi dei prodotti basato su una buona salvaguardia dell’ambiente certificata. I ricercatori sono convinti che «Un tale approccio evita la necessità di assumere un intervento da parte di un pianificatore sociale internazionale, stabilendo il potenziale per una conservazione redditizia su terreni privati, fornendo un importante percorso aggiuntivo per sostenere le specie in via di estinzione».
Anche il Global Biodiversity Outlook 3, pubblicato nel 2010 dalla Convention on biological diversity riconosce che la perdita di biodiversità in atto richiede azioni rapide e radicali e i ricercatori evidenziano che «Proteggere i territori indisturbati, anche se essenziale, è chiaramente insufficiente, e il ruolo chiave del terreno non protetto di proprietà privata è sempre più riconosciuto». Lo studio infatti si occupa di cosa fare, senza interventi governativi, sui terreni privati, utilizzando però incentivi per il singolo proprietario terriero. Utilizzando dati dettagliati si è giunti alla conclusione che il successo della salvaguardia delle specie su un terreno privato dipende da tre fattori: «Efficacia della conservazione (impatto sulle specie bersaglio); costi per i privati (in particolare la riduzione della produzione), benefici per i privati (per esempio, nella misura in cui le attività di conservazione prevedono una compensazione, aumentando il valore della produzione rimanente)».
Al centro dello studio c’è proprio la questione cruciale della produzione di olio di palma in uno dei maggiori hotspot della biodiversità tropicale, ne vengono fuori dati a volte contraddittori ma che dimostrano che i consumatori sarebbero disposti a pagare tra il 15 e il 56% in più i prodotti a base di olio di palma se questo significasse una maggiore salvaguardia di specie a rischio di estinzione attraverso pratiche agricole sostenibili. « Anche nelle regioni in cui la produttività delle palme è relativamente bassa, un incremento dei prezzi del 15% to consentirebbe di conservare un’area di foresta pari a circa il 20% dell’area coltivata», dicono i ricercatori.
Uno degli autori dello studio, Brendan Fisher, del Gund Institute for Ecological Economics dell’univerrsità del Vermont, ha detto a Science: «Un modo per salvare le specie e la biodiversità minacciate dall’espansione dell’agricoltura è mostrare alle grandi compagnie quale economia può fiorire dalle pratiche di conservazione: questo studio mostra quanto sia importante che l’industria e i ricercatori collaborino per trovare delle soluzioni possibili ai problemi. Si tratta di cercare un equilibrio tra due forze opposte: da una parte c’è una crescente domanda mondiale di cibo, di fibre e di biocombustibili, dall’altra c’è un imperativo assoluto di arrestare la perdita di biodiversità del pianeta».
Il problema è che l’olio di palma è così usato in alimenti, cosmetici e biocombustibili proprio perché è a basso costo ed è per questo che le multinazionali hanno bisogno di sempre più piantagioni in aree attualmente ricoperte dalle foreste tropicali – come faceva notare la povera Segolene – dove vivono oranghi, tigri, leopardi nebulosi, elefanti e rinoceronti ed una miriade di magnifiche specie in via di estinzione.
Probabilmente agli oranghi piacerebbe molto la Nutella, ma crediamo che un piccolo applauso per il temerario “sciovinismo” francese di Segolene Royal lo avrebbero fatto e la petizione la avrebbero firmata.