[05/10/2009] News
Leggere l'ultimo libro di Franca Canigiani, docente di geografia del paesaggio e dell'ambiente dell'Università di Firenze, in questi tragici giorni funestati in Italia dall'alluvione di Messina, arrivato pochi mesi dopo il terremoto dell'Abruzzo, dà la stessa sensazione di vedere un documentario ispirato all'opera stessa. "Salvare il Belpaese" è una missione che, di fronte al nulla che da anni in Italia viene fatto per rimediare al drammatico e diffuso dissesto idrogeologico, sembra impossibile. Anche nella nostra cara Toscana, meno assalita dal ‘malinteso sviluppo' fatto di lunghe teorie di case, capannoni, abusi, strade, raccordi in spregio a ogni criterio di sostenibilità, ma comunque sottoposta anch'essa a un continuo consumo di suolo che ne mette in crisi sia il suo valore paesaggistico, sia le risorse naturali anche in termini di resilienza.
Il percorso di Canigiani parte da Cederna e dalla sue denunce contro il "malgoverno del territorio" degli anni Settanta e, attraverso le lezioni del suo ‘maestro' Giuseppe Barbieri, arriva ai nostri giorni e alla Toscana appunto con una proposta di ‘salvezza' per il suo territorio. L'impostazione sembra ancora quella della salvaguardia e della protezione dell'esistente, con diverse sponde a favore dei comitati, ma si nota fortemente l'impulso verso una ‘politica' di sviluppo ecologicamente e socialmente sostenibile pur restando irrisolti alcuni nodi alla fine della lettura. E' ben chiaro infatti anche all'autrice che in questa fase acuta della crisi ecologica planetaria fermarsi alla protezione di un'area di pregio paesaggistico pur in un'ottica di trasformazione e non di museificazione dell'esistente non basta, e diventa velleitaria se non si affronta nella sua complessità.
Nella sostanza un territorio lo si custodisce se non se ne mettono a rischio le risorse. E per far questo la sostenibilità ambientale la si deve applicare come criterio direttore universale perché diversamente non si proteggerà neppure quella singola area. Le leve da muovere, dunque, sono molte e vanno azionate tutte: riduzione del consumo del suolo; riduzione dei consumi di energia; sviluppo delle rinnovabili; riduzione dei consumi di materia; corretta gestione del ciclo dei rifiuti; sviluppo di una mobilità più sostenibile solo per fare alcuni esempi.
Uno degli aspetti più interessanti del testo è proprio quello che prova a dare una risposta sul come e sul chi dovrebbe tutelare il paesaggio italiano partendo dal livello europeo (Convenzione Ue) fino a quello locale. Un quadro legislativo definito "incerto e confuso" benché "il paesaggio" sia "valore primario rientrante fra i principi fondamentali della Costituzione, come il diritto al lavoro e alla salute", ma la cui "tutela è in Italia ancora lungi dall'essere attuata nel quadro di un progetto organico di pianificazione sostenibile del territorio, di un corretto rapporto tra esigenze di trasformazione e natura dei luoghi".
Un percorso dove si individua nel malinteso concetto di "valorizzazione" affiancato a "tutela" come uno degli errori commessi che ha portato negli anni "a concepire la valorizzazione come mercificazione e non come gestione dinamica dei beni culturali in armonia con i processi di uno sviluppo territoriale sostenibile". Leggi incerte e confuse, dicevamo, che hanno portato alla separazione di competenze tra Stato, regioni, province e comuni "tradendo" l'articolo 9 della Costituzione nel quale si sostiene che "la tutela del paesaggio è preminente interesse della Repubblica e compete quindi alla totalità delle sue articolazioni statali, regionali, provinciali, locali". Scenario dimostrato negli atti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio che "contiene disposizioni riconducibili sia alla materia denominata ‘tutele dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali' appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato, sia alle materie denominate ‘governo del territorio' e ‘valorizzazione dei beni culturali e ambientali', appartenenti alla legislazione concorrente, in cui spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione - appunto - dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato".
Un continuo rimbalzo di competenze - anche pretese dai comitati sedicenti espressione di democrazia diretta e dal basso ma che poi richiedono un rigido governo centralizzato della salvaguardia del paesaggio - che di fatto non agevola neppure quelle amministrazioni virtuose che pur non mancano nel nostro Paese. Tanto più che con la legge del 25 giugno 2008 n.112 si è tagliato a tal punto alla voce "tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici" che viene ricordato - citando Salvatore Settis - il rischio che "non solo non sarà possibile ripristinare i paesaggi degradati, ma neppure proteggere quel poco che ancora resta da salvare". E per risolvere la questione non basta neppure la ‘via Toscana' del principio di sussidiarietà che stabilisce che "la ripartizione gerarchica delle competenze deve essere spostata verso gli enti più prossimi al cittadino e, pertanto, più vicini ai bisogni reali del territorio. Ma con questo sistema "gli strumenti di pianificazione sovracomunali rischiano di non avere efficacia precettiva e direttamente operativa nei confronti della pianificazione sott'ordinata" cosa che chi segue le dinamiche dei territori (anche solo attraverso la stampa) può ben confermare.
Canigiani critica inoltre - definendola inspiegabile e parlando del Piano di indirizzo territoriale - "l'ostinata opposizione della Toscana contro la ‘visione centralistica propugnata dal Codice (specie nella sua versione riformata), là dove questo assume come esclusivo il ruolo dello Stato nel definire le norme generali di tutela del paesaggio che ‘costituiscono un limite all'esercizio delle funzioni regionali in materia di governo e fruizione del territorio'.
Infine viene stigmatizzato (citando Baldeschi) il fatto - dando piena ragione alla Rete dei comitati - che "la difesa del paesaggio sia affidata in ultima istanza ai Comuni, la cui adesione agli obiettivi regionali si colloca su un piano meramente volontaristico, essendo stato smantellato il vecchio sistema di gerarchico di controlli, sostituito da una (scarsamente operativa) Conferenza paritetica interistituzionale".
Come fare dunque? Tre le politiche che hanno l'onere del "preservare, per quanto possibile, nella loro integrità" i paesaggi di grande valore, ma anche quelli degradati e per questo da recuperare: salvaguardia; gestione; pianificazione. Le politiche di salvaguardia presuppongono che "paesaggi di grande valore patrimoniale " siano "da preservare, per quanto possibile, nella loro integrità" e dunque con interventi "di conservazione e mantenimento dei loro aspetti più significativi". Le politiche di gestione comprendono invece "le azioni volte a garantire il governo del paesaggio in una prospettiva di sviluppo sostenibile, orientando e armonizzando le trasformazioni necessarie per non stravolgere le caratteristiche paesaggistiche dei luoghi. Le politiche di pianificazione infine "fanno riferimento alle operazioni volte alla riconfigurazione e riqualificazione di aree degradate, al recupero e riprogettazione delle periferie, alla creazione di nuovi paesaggi, quando questi hanno perso le loro qualità originarie".
C'è dunque forte un problema di processo decisionale in generale e in particolare quando sono in discussione impianti di trattamento rifiuti o di produzione di energia che vedono amministrazioni scontrarsi ai vari livelli con i cittadini al cui fianco spesso si trovano altri amministratori che creano così ancor più "confusione" non dando le risposte che invece i loro ruoli imporrebbero. Tema non sorvolato dal testo che indica come strada da percorrere quella "della necessaria compensazione ambientale e sociale, attorno alla quale si svolge un ampio dibattito culturale, essendo questione non facilmente risolvibile, per i limiti insiti nella valutazione monetaria dei danni alla vita umana (compresa quella delle generazioni future), alla qualità dell'aria, dell'ambiente, dei paesaggi".
Difficile perché si entra in un altro tema decisivo che è quello della percezione, spiegabile piuttosto bene nella circolarità del ragionamento esplicitato dalla domanda: fino a che punto i fabbisogni della comunità ampia possono prevaricare i diritti della comunità ristretta? Perché di fatto se il caso in oggetto è quello di un impianto X da installare si vedrà che inserirlo in un paesaggio di pregio trova l'opposizione facile del ‘brutto inserito nel bello"; ma anche farlo nella periferia degradata trova un buon argomento se ci si limita all'incompleta analisi: l'iniquità intrinseca ai grandi impianti industriali o infrastrutturali si salda con una preesistente ineguaglianza sociale ed è avvertita come ulteriore segno di marginalità e perifericità. Da qui l'idea che solo con una forte compensazione ambientale e sociale si possa realizzare l'impianto X in oggetto (sia esso una fabbrica, un impianto di compostaggio, un parco eolico ecc).
Lucida è anche l'analisi riguardo al dovere di sviluppo delle energie rinnovabili, anch'esse non esenti da impatti sul paesaggio - siano esse pure i pannelli fotovoltaici - con auspici di sempre migliori tecnologie che mirano a impatti visivi sempre più bassi e attenzione verso i nuovi ruoli per gli agricoltori di oggi e di domani quali protettori dell'ambiente rurale e anche fautori della loro trasformazione sempre dentro il criterio della sostenibilità.
Alla fine della lettura dell'interessante testo che vede riportata anche un'ampia letteratura aggiornatissima sia sulle leggi in materia sia sul dibattito in corso nonché una serie di proposte dirette alla Regione Toscana, resta l'assenza di un tema per noi fondamentale: come si può tutelare un territorio se non si hanno gli strumenti di contabilità ambientale che possono darci la misura dello stato delle cose e successivamente delle azioni cogenti messe in opera (sia che si parli di nuovi insediamenti abitati, sia che si parli di impianti, sia che si parli anche di ripristino di aree degradate).
Non solo, se è vero che finalmente si è posto il tema del turismo e delle seconde case come frontiera dell'insostenibilità che sembrava solo figlia dell'industria, non si può perseguire senza avere i ‘numeri' delle risorse a disposizione - oggi misurabili in larga parte - appare un errore tragico. La sostenibilità ambientale e sociale che racchiude in sé anche la tutela dei paesaggi che sono certamente una "componente essenziale del contesto della vita delle popolazioni" non si può agire senza una contabilità ambientale che evidenzi i limiti di un territorio finito per natura.
Come si vede, invece, nonostante un territorio nazionale dissestato idrogeologicamente per il 70% solo un comune ha imposto di bloccare il consumo di suolo, mentre tutti gli altri non ci pensano nemmeno. Anzi stanno sfruttando il cosiddetto ‘piano casa' del governo per continuare a costruire convinti che il mattone possa crescere all'infinito (il Pil docet). Si arriva agli assurdi di seconde case che nascono come funghi senza alcuna necessità e solo per speculazione edilizia (per non parlare dei porti turistici) mentre non trovano il modo di essere realizzati impianti di produzione di energia rinnovabile o di trattamento rifiuti fondamentali per i territori.
Questa è la complessità che deve essere affrontata dagli amministratori perché diversamente si pensa di aver evitato di rovinare una periferia già degradata non costruendoci un impianto di trattamenti di rifiuti speciali e poi ce li ritroviamo in una nave in fondo al mare; oppure crediamo che le colline siano state salvate da un parco eolico e poi ci ritroviamo una nuova centrale a carbone o magari una nucleare; come del resto è folle un Paese che invece di metter mano al dissesto idrogeologico costruisce inutili grande opere e poi si scaglia contro la tramvia fiorentina, per dire inoltre, di fronte alle tragedie come quella in gran parte evitabile di Messina, che i soldi per il Ponte ci sono mentre quelli per mettere in sicurezza il territorio no.