[06/10/2009] News toscana

Agricoltura e sostenibilità, Pascucci (Cia): «Servono incentivi mirati»

FIRENZE. «Semplificazione, sostegno alle imprese, innovazione e governance»: queste le azioni che secondo la sezione Toscana della Confederazione italiana agricoltori (Cia) si rendono necessarie per «risollevare l'agricoltura toscana da una crisi senza precedenti», secondo un comunicato di ieri. Anche per quanto attiene al comparto agro-silvo-pastorale è ovvio che non abbia (non abbia più, perlomeno) senso l'elargire finanziamenti e lo stanziare fondi di garanzia "a pioggia", mentre è da sostenersi una politica di selezione che, senza rinunciare a dare appoggio alle imprese in difficoltà o che garantiscono un presidio sul territorio, evolva ed orienti però il comparto in direzione dell'innovazione di processo, di prodotto, di distribuzione (pensiamo alla filiera corta) e in generale verso la sostenibilità. Di questa e di altre questioni (come le prospettive per l'agro-energia in regione) abbiamo discusso col presidente della Cia regionale, Giordano Pascucci (Nella foto).

Pascucci, nel comunicato di ieri della Cia nazionale si auspica una «nuova politica agraria nazionale», finalizzata a «conquistare maggiore competitività». Da molte parti si ritiene che la nuova agricoltura o sarà sostenibile o... non sarà. Lei concorda?

«Sicuramente sì, se guardiamo la sostenibilità come una serie di interventi che possano garantire un futuro all'impresa agraria. E in questo senso è centrale la sostenibilità economica: oggi l'impresa agraria ha un reddito che si sta contraendo, c'è una forte oscillazione dei prezzi e questo crea difficoltà: o si fa sì, quindi, che i prezzi di vendita siano competitivi e remunerativi, oppure non c'è più un mercato. Ed è su questo che bisogna lavorare.

Quindi serve una politica nazionale e comunitaria che affrontino la situazione: per alcune produzioni non c'è possibilità di stare sul mercato».

A quali produzioni si riferisce?

«Cereali, vino, olio, floricoltura, zootecnia, in particolare. Per i cereali, oggi il loro prezzo di vendita è sui 17-18 euro a quintale, quasi il 40% in meno rispetto al costo di produzione. E il problema non è solo fare in modo che il prezzo torni a 25-30 €, ma comunque se questo non avviene (grazie all'intervento di fattori esterni a quelli aziendali), rischiamo appunto di non avere mercato.

Quindi serve un'azione incisiva a livello europeo e mondiale. Pensiamo agli Usa, dove al di sotto di un certo livello di prezzo si attivano interventi di sostegno predisposti con le agenzie di assicurazione. A questi interventi sull'oscillazione dei prezzi devono accompagnarsi misure per riorganizzare la filiera: serve quindi l'apertura dei tavoli di filiera, perchè il problema non è solo il prezzo finale. Ad esempio, mi riferisco a quei prodotti il cui prezzo d'origine è crollato, ma non quello al dettaglio finale del prodotto lavorato. Pensiamo ai cereali, che in un anno hanno visto il prezzo crollare del 50%: abbiamo forse assistito anche al calo del prezzo della pasta? No: e allora qualcosa non torna».

Quali le prospettive per il comparto agro-energetico?

«E' un settore dove ci sono possibilità: le biomasse, gli scarti possono essere di sostegno, ma anche qui occorrono semplificazione e investimenti. Certo, pensare che un'impresa agricola si occupi solo di coltivazioni energetiche è difficile: ripeto che si tratta di una componente da valorizzare, ma non si può pensare che un ‘azienda coltivi cereali solo per produrre energia, ammesso che sia più remunerativo. L'agricoltura è soprattutto per alimenti, in sintesi.

Non a caso penso alle prospettive date dagli scarti di lavorazione, soprattutto. Comunque, detto questo, credo che l'agro-energia sia una valida alternativa per alcune zone, meglio se a filiera corta: l'energia deve essere prodotta per essere consumata, diciamo».

Nel suo intervento di ieri lei richiama, tra le altre cose, gli incentivi già in atto nei confronti del settore agro-pastorale, chiedendo un loro aggiornamento. A nostro parere l'epoca degli incentivi distribuiti "a pioggia" ha fatto il suo tempo, e deve essere sostituita (o perlomeno affiancata, poiché in certi casi l'intervento "urbi et orbi" da parte del Pubblico continua ad essere necessario) da azioni incentivanti vincolate al raggiungimento di obiettivi precisi: tra questi obiettivi citiamo l'innovazione di processo e di prodotto, e in generale il perseguimento della sostenibilità. "No innovazione? No sostenibilità? No incentivi", in sintesi. Il suo parere?

«Una parte degli incentivi attuali, come quelli per lo sviluppo rurale, sono già fortemente legati alla sostenibilità, cioè esiste una serie di norme, di direttive, di orientamenti comunitari da perseguire nel momento in cui vengono dati gli aiuti. E sono, questi, aspetti che vanno ulteriormente rafforzati: bisognerà quindi lavorare per selezionare maggiormente gli interventi, in primo luogo basandosi sulle caratteristiche del beneficiario (quindi da una parte vanno sostenute quelle aziende che guardano al mercato, e dall'altra parte sono da attuare politiche di ambito più sociale, per mantenere le imprese sul territorio o sostenere quelle che puntano all'autoconsumo), e poi guardando alla qualità dei progetti e dell'innovazione contenuta in essi.

E in questo senso, non è solo la qualità della produzione, che andrebbe messa al centro degli aiuti, ma anche il suo indotto sull'ambiente e sulla società».

Altra parte interessante del suo intervento di ieri è quella in cui si chiede di «regolamentare l'uso del territorio favorendo l'attività produttiva e scoraggiando la rendita». Lo scoraggiamento della rendita a favore del dinamismo economico è cosa buona e giusta, ovviamente, ma la cosa appare diversa a seconda che si parli di aree urbane o rurali. Se in città, cioè, occorre scoraggiare la rendita "senza se e senza ma", per quanto attiene ai contesti rurali il discorso sembra in parte diverso, poiché una certa componente di rendita è anche ciò che permette una certa conservazione del paesaggio agrario e forestale toscano, che non ha interesse ad affrontare un dinamismo eccessivo. Il suo parere?

«Occorre considerare, a questo proposito, che i numeri sulle imprese in Toscana sono contrastanti: all'Istat risultano 110.000 imprese, alla Camera di commercio ne risultano iscritte 50.000, mentre quelle che hanno un rapporto con la Regione per le agevolazioni sono 65.000. infine, all'Inps sono iscritte 28-30.000 aziende.

Io credo che nella ruralità tutti siano attenti al territorio, cioè che tutti contribuiscano al mantenimento del paesaggio: ci sono eccezioni, certo, e c'è stata un'evoluzione del significato di "valorizzazione", ma in generale nessuno ha fatto "tira tira" col territorio, come si dice.

Detto questo, ribadisco che quando si parla di sostegno alle imprese si può selezionare ulteriormente: questo non deve significare che alcuni prendono tutto e altri niente, ma è ovvio che se si fa un intervento di sostegno e lo si fa finalizzato alla salvaguardia ambientale, ecco che ai finanziamenti credo possano accedere tutte le 110.000 imprese che risultano all'Istat, perchè qualsiasi azienda può migliorarsi in direzione della tutela, della valorizzazione e della salvaguardia ambientale.

Se invece vogliamo un intervento finalizzato a sostenere il mercato delle imprese, o magari l'export, in questo caso io guarderei solo a quelle iscritte alla camera di commercio.

Insomma, non bisogna escludere nessuno, ma occorre individuare le priorità. Riguardo quindi al discorso della rendita, è chiaro che se qualcuno acquista un pezzo di suolo per un investimento va bene finanziarlo, ma mi domando se è altrettanto giusto dare i contributi ad una multinazionale che acquista un appezzamento, magari solo per farne una location per un film.

E non ho niente contro le multinazionali, sia chiaro: il punto è che oggi si danno i soldi a tutti. C'è chi lavora la terra per ricavare reddito e chi lo fa invece come secondo lavoro, e quindi forse qualche elemento di differenziazione è opportuno: questo non per escludere nessuno, ripeto, ma per sostenere solo quei progetti che meritino. Ad esempio, un aiuto all'investimento è meglio darlo alle produzioni di qualità, e credo anche che non si possa mettere sullo stesso piano chi lavora la terra perchè necessita di reddito immediato rispetto a chi invece può chiedere l'aiuto delle banche.

Insomma, occorre coniugare lo status del soggetto con la qualità dell'investimento, nel momento in cui sono elargiti i fondi pubblici. Penso anche che se c'è un'impresa giovane, nuova, senza risorse, che magari vuole attuare iniziative finalizzate a forme di micro-internazionalizzazione (penso al settore vinicolo, ad esempio), è indispensabile il sostegno pubblico. Questo perchè alla ripresa dalla crisi ci sarà una situazione diversa da oggi, e dovremo esportare di più: si alla filiera corta, si al turismo, cioè, ma non possiamo pensare di mangiarci tutto quello che produciamo in regione. E quindi una parte di prodotto (quella di qualità, naturalmente) deve trovare collocazione in mercati anche nuovi. Su questo ci vuole un sostegno importante, e non continuare a pensare che solo la grande impresa può puntare all'export. Occorre differenziare i mercati, puntando non alla massa ma alla grande qualità».

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