
[30/10/2009] News
LIVORNO. Corriere della Sera e Repubblica oggi affrontano il tema della trasformazione in atto del consumatore tipo americano. Gaggi sul quotidiano milanese scrive di una ‘nuova normalità dell'austerity', mentre Aquaro su quello romano usa la parola "simple" in qualità di marchio dei prodotti a stelle e strisce cresciuti del 65,7% dal 2005. «
L'America cena a casa, stende i panni e rinuncia all'auto» sentenzia il Corsera, «Se il 2009, causa recessione, passerà alla storia come l'anno del ‘cheap', del ‘basso costo' salutato dall'omonimo best-seller di Ellem Ruppel Shell - gli fa eco Repubblica - l'anno che verrà sarà quello della semplicità. I consumatori non vogliono più sapere soltanto cosa c'è dentro. Sempre di più nelle etichette cercano quello che non c'è: dagli additivi ai conservanti». Nessuno dei due sembra tuttavia esser convinto fino in fondo che tutto questo abbia dei benefici sull'economia e sulla salute. Anzi, Gaggi ritiene e teme che questo "new normal", oltre ad inquinare meno, «costringa permanentemente una grossa fetta della popolazione a vivere negli stenti» e per questo «serve un nuovo Keynes capace di disegnare un modello di crescita ‘ecocompatibile' e capace di creare milioni di posti di lavoro. Pannelli solari - conclude - e pale eoliche non bastano».
Come si vede la traduzione della ‘green economy' obamiana è stata quella sbagliata e semplificata di sviluppo delle energie rinnovabili punto e basta. E' chiaro che messa così, come dicevamo alcuni giorni fa, non ha speranza di decollare più tanto l'idea - che invece dovrebbe muovere tutti gli economisti che guardano oltre la contingenza, quelli dalla veduta lunga per dirla alla Monti - ovvero della riconversione ecologica dell'economia che conduca a un'eco-nomia, dove la gestione di risorse sempre più scarse sia così dentro la sua pratica da non aver bisogno di altri aggettivi.
Un'economia che si ponga il tema del risparmio di materia e di energia, della manutenzione del territorio, dell'edilizia sostenibile, del consumo di suolo, della corretta gestione del ciclo integrato dei rifiuti, della difesa della biodiversità, un'economia di cui parla un'intera schiera di economisti - e che in qualche modo anticipò Berlinguer nel famoso discorso sull'austerity ormai molti anni fa - ma è chiaro che dalla teoria alla pratica il passaggio non sarà né facile, né indolore e soprattutto, a parte Obama (pure lui in teoria la momento), nessun'altro governo lo ha in agenda.
Se si è arrivati a degli eccessi - metaforicamente e anche praticamente racchiudibili dentro le obesità del nostro modello di sviluppo -, se si è arrivati a mettere a rischio le risorse del pianeta, se si è arrivati a inquinare l'aria che respiriamo, è chiaro che in parte da quegli eccessi e dalle sue conseguenze - se non ci si vuole rompere definitivamente la testa nel muro dopo avercela sbattuta troppe volte - ci si dovrà allontanare.
Che questo voglia dire con certezza "stenti permanenti per una grossa fetta della popolazione" lo suppone Gaggi, e tra l'altro ci pare che sia con l'attuale modello di sviluppo che questo accade nel terzo mondo, e come orizzonte poi neppure gli apologeti della decrescita felice arrivano a sostenerlo o ad immaginarlo. L'idea è che si possa stare meglio con di meno, quando per anni si è propugnata l'idea opposta cosa possibile (con grandi sforzi è chiaro) solo con un modello economico che non abbia l'idea di crescita sempre e comunque all'infinito, ma che abbia altri indicatori attraverso i quali misurare fino a dove l'uomo può spingersi prima di rendere irreversibili i propri impatti sull'ambiente.
Ambiente che, inteso come ecosistema, vede l'economia stare al piano di sotto e non al piano di sopra... E dunque in quest'ottica il trend di crescita del marchio ‘simple' dal 2005 - e quindi ben prima della crisi - è un buon segnale, perché significa che è stata fatta una scelta con responsabilità in una fase non critica dell'economia.