[02/11/2009] News

Zeppelin - Progetto per un Urban Center nell’area metropolitana fiorentina di Enrico Falqui, Anna Bartolaccio, Paola Pavoni

Prima di chiedersi che cosa sia un Urban center, occorre chiedersi che cosa sia, oggi, una città. Se consideriamo infatti che nel 2007 la popolazione urbana ha per la prima volta superato, su scala globale, quella rurale, e se a questo dato globale aggiungiamo quello europeo (80% di cittadini urbani, attualmente) e la proiezione globale per il 2050 (75% di popolazione urbana, nelle previsioni), si capisce infatti come il percorso in direzione della sostenibilità non può non passare attraverso il radicamento di una nuova concezione dell'organizzazione dello spazio urbano.

Secondo gli autori di "Zeppelin - progetto per un Urban center nell'area metropolitana fiorentina", infatti, la città è un «sistema complesso» che «da un lato rappresenta lo spazio tangibile che permette di concretizzare le proprie aspirazioni e i propri desideri, dall'altro un luogo segnato da enormi tensioni ambientali e sociali, una falla in continua crescita ed espansione». E questa complessità va gestita puntando ad uno sviluppo che tenga conto dei limiti dati, ad esempio, dalla capacità di carico dei sistemi ecologici terrestri, dell'effettiva quantità di suolo disponibile e delle esternalità negative connesse ad un modello insediativo inadeguato (per esempio in direzione delle modificazioni climatiche su scala locale e globale), poichè «quanto più aumenta il grado di anarchia e incompletezza della città contemporanea, tanto più essa distrugge le specializzazioni dell'ambiente ed i fini degli edifici, predisponendo la comunità urbana, attraverso la frammentazione dell'ambiente e la crescita dell'urban sprawl, ad accettare l'inevitabile costruzione della metropoli diffusa, senza confini e limiti precisi».

E, se questa criticità incombe sopra il futuro di qualsiasi area metropolitana del pianeta, essa è però particolarmente stringente per quanto attiene all'area metropolitana fiorentina. Gli autori, nella stesura del libro, hanno infatti scelto un percorso a cerchi concentrici, che parte cioè da lontano (ad esempio da una rassegna delle politiche urbanistiche di ispirazione europea, che hanno avuto inizio col primo programma Urban -1994) e diminuisce poi la sezione dell'obiettivo fino a stringerlo sul quartiere di Novoli, a Firenze, dove già prima del dibattito sul Piano strutturale era emerso il progetto, per ora messo da parte, per la realizzazione di un Urban center all'interno della centrale termica tuttora presente, e che riforniva di energia l'area ex-Fiat.

Dall'energia del petrolio combusto a quella della creatività urbana posta a sistema con il settore produttivo, quello urbanistico e quello sociale, quindi. E questa prospettiva è da attuarsi, secondo gli autori, proprio in quel quartiere che, in un'ottica di città policentrica vista come l'obiettivo da perseguire per lo sviluppo della Piana fiorentina (coerentemente con gli obiettivi indicati dal Piano strategico per l'area metropolitana), è destinato a diventare contemporaneamente il (o meglio un) nuovo centro della città e della Piana, anche davanti al fatto che a poche decine di metri è in via di completamento il nuovo palazzo di giustizia.

Ma veniamo a che cosa sia da considerarsi un Urban center: se in poche parole esso può essere definito come un centro di promozione - e di attuazione - della democrazia partecipativa e del coinvolgimento sociale, e un luogo di incontro tra la cultura e la creatività di una comunità e le sue dinamiche urbanistiche ed economiche (oltre che sociali), in realtà esso assume la forma più indefinita di una "banca dei semi" e di un "vivaio" della conoscenza, oltre che «produttore e consumatore delle diverse culture e dei diversi linguaggi della contemporaneità». Se l'obiettivo è quello di una «città creativa» (che si espleta anche sotto forma di «città rinnovabile»), infatti, ciò deve essere perseguito attraverso un nuovo linguaggio urbanistico, che superi i limiti del modello pianificatorio attuale: l'urbanistica attuale, infatti, «quella cioè regolata da piani e zonizzazioni, ha dimostrato di essere nel pieno di una profonda crisi culturale (..) che la rende incapace di far fronte ai problemi generati dalla rapidità delle trasformazioni e dalle crescenti pressioni indotte dalla globalizzazione (..). Proprio per questo il progetto urbano, come quello architettonico, deve essere pensato non più come elemento statico, ma come materia flessibile e creativa, capace di trasformarsi nel tempo».

Questa evoluzione delle pratiche urbanistiche non va intesa, certo, come la fine della pianificazione "dall'alto", ma come un ritorno ad una città vivibile e che sia caratterizzata da un impatto diverso sui sistemi naturali e sociali da cui essa trae linfa nel suo sviluppo, e che possa inoltre, come giustamente è ipotizzato dagli autori, «ricorrere ad espedienti innovativi e creativi per frenare il consumo di suolo, riutilizzando funzionalmente i vuoti urbani e trasformando gli spazi in disuso in commutatori spontanei di capitale culturale e sociale, luoghi in cui inserire elementi riqualificanti e in cui la città possa crescere senza espandersi».

Occorre quindi, da una parte, percorrere il sentiero verso una città vivibile e creativa, evolvendo la partecipazione civica alle scelte urbanistiche da "esperienza puntuale" o "normale sistema di governo urbano", e introducendo in essa quei basilari elementi di informazione (per esempio ambientale) senza quali la partecipazione diventa vuota "consultazione", e rischia anzi di essere utile per la sostenibilità sociale, ma non per quella ambientale. E questa evoluzione della democrazia e dell'urbanistica, per non restare confinata in un dibattito tra elite culturali o nicche sociali, deve necessariamente trovare uno spazio deputato, che sia contemporaneamente "nocciolo" visibile delle pratiche partecipative attuate in una comunità e fulcro dell'incontro di queste pratiche con il sistema politico e con quello produttivo della comunità stessa. E questo luogo, destinato a diventare produttore (oltre che "consumatore", come detto) di cultura e arte, oltre che snodo delle pratiche partecipative, ha la sua migliore localizzazione, secondo il parere (condivisibile) degli autori, in un luogo fuori dalle attuali rotte turistiche, e anzi in un'area, come quella di Novoli, attualmente sottoposta a enormi processi di mutamento e riqualificazione.

L'Urban center diventà così, se adeguatamente collegato con le reti partecipative esistenti fuori e dentro la città, un «nodo di connessione della città alla rete globale» e ai processi di evoluzione culturale insiti in essa, ma anche una "fabbrica" di partecipazione civica (cioè un «ente per la scomposizione in fasi dei processi decisionali per le trasformazioni urbane»), un promotore dei processi creativi e un «centro di monitoraggio, di ricerca, di elaborazione di proposte, nonché garante di una corretta pianificazione del territorio (..) nella direzione dello sviluppo sostenibile». Un luogo, in poche parole, dove la partecipazione sia un mezzo, e l'informazione (in direzione della sostenibilità dello sviluppo urbano e globale) il fine.

Da quanto scritto, si può capire come "Zeppelin" possa essere letto sotto svariate lenti: da una parte, esso si pone come manuale di urbanistica contemporanea, e in questo senso va citata la rassegna sistematica di tutte le principali esperienze attuate su scala globale, europea e nazionale, e dei differenti modelli organizzativi (per esempio un maggiore o minore focus sull'urbanistica, o il maggiore/minore coinvolgimento delle pubbliche amministrazioni nel loro funzionamento) cui si ispirano gli Urban center finora realizzati. Dall'altra parte, possiamo definire l'opera anche come un'analisi dello status quo delle politiche e delle pratiche partecipative, dell'influenza che esse (è sperabile, ed attendibile) avranno sempre più nella pianificazione e gestione delle aree urbane, e delle metodologie che sono state messe in atto per evolvere la democrazia partecipativa in direzione di una maggiore concretezza (anche operativa) e di una più stretta interazione con i processi economici, oltre che politici. Infine, possiamo leggere "Zeppelin" come il disegno che urbanisti e architetti toscani hanno proposto per vedere se esiste «un altro modello identitario di luoghi urbani, se esiste un'altra "utopia urbana" che valga la pena progettare e conservare per le future generazioni».

E in tutto questo si inserisce una proposta puntuale e localizzata geograficamente, finalizzata a portare a termine un progetto che già era stato avviato, e che ora è arenato nelle secche del Piano strutturale: un progetto che intende dare a Firenze, dopo che per secoli le torri di Arnolfo (palazzo Vecchio) e il campanile di Giotto avevano simboleggiato la dialettica tra potere laico e potere religioso, una nuova «torre civica» (cioè la ciminiera della ex-centrale termica) che sia espressione e concretizzazione delle nuove strategie per l'urbanistica socialmente e ambientalmente sostenibile, e che è da realizzarsi restaurando una struttura già esistente, in quello che sta diventando un nuovo centro della città e dell'area metropolitana fiorentina.

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