[10/11/2009] News
ROMA. All'inizio di dicembre, a Copenaghen, una grande conferenza delle Nazioni Unite riporterà all'attenzione del mondo quel grande problema ambientale globale che chiamiamo "cambiamento del clima". A gennaio, col 2010, entreremo nell'anno che le Nazioni Unite hanno deciso di dedicare a quel grande problema globale che definiamo "erosione della biodiversità".
I due problemi hanno un comune denominatore, oltre che un comune organizzatore: entrambi vedono l'uomo protagonista. Anzi, possiamo dire che l'uomo è diventato un attore ecologico globale proprio perché riesce ad accelerare le dinamiche del clima e proprio perché riesce ad accelerare le dinamiche connesse alla biodiversità.
C'è, tuttavia, anche una relazione diretta tra l'evoluzione climatica e il numero di specie che nascono, vivono e muoiono sul pianeta Terra. L'Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), per esempio, sostiene che il previsto aumento della temperatura media del pianeta causerà un ulteriore, aggiuntiva erosione di biodiversità. Molte specie moriranno a causa dei cambiamenti climatici.
Non c'è dubbio alcuno che il clima influenzi la vita e la morte delle specie sulla Terra. Ma questa influenza, sostengono Kathy J. Willis dell'università inglese di Oxford e Shonil A. Bhagwat dell'università norvegese di Bergen in un articolo pubblicato di recente sulla rivista Science, è molto più complessa di quanto prevedono gli scienziati dell'IPCC. E questa complessità ha caratteristiche omeostatiche: in pratica, rende il patrimonio di biodiversità molto più resistente ai cambiamenti climatici.
Il progressivo affinamento dei modelli di previsione dell'evoluzione del clima e della biodiversità consente di afferrare sempre più questa complessità. Ecco perché le previsioni cambiano. Ora, per esempio, possiamo prendere in considerazione sempre più fattori che agiscono a piccola scala e non solo a grande scala. Grazie a modelli più raffinati, per esempio, alcuni ecologi svizzeri hanno calcolato l'effetto della variazione del clima sulla flora alpina prendendo prima in considerazione celle quadrate di 16 chilometri di lato e poi celle più piccole, di soli 25 metri.
Nel primo caso i modelli prevedono, per la fine del secolo, una forte erosione della biodiversità alpina. Nel secondo caso i modelli prevedono che sopravvivrà il 100% delle specie che caratterizzano la flora delle Alpi.
Altri ricercatori hanno simulato l'evoluzione di biodiversità delle farfalle europee. Le variazioni climatiche ne faranno sparire molte specie. Ma nei nuovi modelli più raffinati di evoluzione il numero di farfalle che sparirà è pari alla metà di quello previsto da vecchi modelli.
Il motivo di queste discrepanze sta nel fatto che i modelli a piccola scala possono prendere in considerazione i microclimi e, quindi, le piccole nicchie che consentono a molte specie sia di piante sia di animali di ritagliarsi un riparo nella prevista bufera del "climate change".
Una bufera causata dall'aumento dell'anidride carbonica in atmosfera. Ma pochi hanno considerato che con una più forte concentrazione di questo gas verranno accelerati i processi di fotosintesi e, quindi, la produzione netta primaria di energia a disposizione degli ecosistemi. Introducendo anche questo fattore nei modelli di previsione, i risultati cambiano e l'erosione di biodiversità si attenua.
Anche la progressiva frammentazione degli habitat parrebbe meno grave del previsto, per la conservazione delle specie. Lo dicono non i modelli, ma i dati empirici. Torben Larsen, per esempio, ha verificato che sebbene le foreste dell'Africa occidentale hanno perduto addirittura l'82% della propria copertura, sono riuscite a sopravvivere 92 specie di farfalle su cento.
Tutto questo non deve farci indurre a un facile ottimismo. Ma a studiare di più e a intervenire meglio. Perché sulla base di conoscenze sempre raffinate possiamo predisporre accorgimenti più efficienti per preservare la biodiversità. Anche se maggiori e più puntuauli interventi da parte dell'uomo per sottrarre le specie ai processi di selezione naturale ci costringeranno, sostengono Willis e Bhagwat, a rivedere le nostre idee su ciò che consideriamo "naturale".