[04/12/2009] News
LIVORNO. Qualunque opinione si abbia del No Berlusconi day - in programma domani - per capirne le origini e per cercare di coglierne le conseguenze, è d'uopo leggersi che cosa dice il Rapporto Censis 2009 presentato stamani al Cnel. Con certezza l'evento è figlio dei tempi che viviamo sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista sociale. Siamo di fronte ad un inedito, nonostante le tante somiglianze con il Vaffa day di Beppe Grillo. Stavolta, infatti, non c'è il guru, non c'è il capopopolo, ma c'è un'idea. O meglio la contrarietà a una persona e al suo agire non solo, crediamo, da presidente del Consiglio. Il movimento nasce nell'etere, in quel social network che tanto fa parlare di sé - Facebook - dove alcuni soggetti sconosciuti fino a pochi giorni fa hanno lanciato un'iniziativa che ha trovato un grandissimo seguito. Tanto da trovare più o meno spiazzati quasi tutti i partiti politici, ma anche le associazioni. Significativo anche che il Manifesto vada a ruota dell'evento, durante il quale (non si sa quanto legittimamente...) dichiara che chiederà il contributo per il giornale e venderà le magliette di Vauro. Il social network, insomma, è oggi il non-luogo dove nascono le idee? La rete da tempo sembra aver preso il posto delle sale dei partiti ed è significativo che come prima grande iniziativa collettiva si proponga un No verso qualcuno. Posizione che si può pure condividere, ma che lascia perplessità appunto sul dopo. Siamo in una situazione dove tutti guidano la stessa macchina con la volontà di buttar sotto qualcuno ma si fatica a intravedere la strada che successivamente si vorrà percorrere.
Calzante ci pare quindi l'analisi del Censis, che pur non cita assolutamente il No-B-day, ma che parla di una società che tenta di replicare se stessa e che, dopo aver pensato di cambiar tutto causa crisi, è ora vittima delle sue antiche debolezze: la scarsa mobilità sociale, l'attenzione esclusiva ai propri interessi particolari, l'antagonismo politico: «Si sta compiendo un processo di lento svuotamento di alcune linee evolutive su cui era cresciuto il nostro Paese nel corso degli ultimi cinquant'anni: la fase dello Stato-nazione, la fase del riformismo e la fase della centralità del privato rispetto all'impegno collettivo. Se gli elementi che hanno sostenuto la struttura dello Stato-nazione sono fortemente messi in discussione, non meno problematica è la cultura e la tensione riformista, che pure in Italia è stata centrale nell'azione di moltissime stagioni di governo: il bisogno individuale confluiva in un interesse collettivo che aspetta risposte da agenzie pubbliche. Queste, con interventi riformatori su scala ampia, ridefiniscono le regole, gli impegni, la governance di determinati processi sociali e produttivi al fine di realizzare una evoluzione delle situazioni di partenza».
«Ma le riforme - aggiunge - comportano di poter ottenere quanto richiesto o auspicato solo in tempi lunghi, e questo è quanto di più difficile da accettare da parte di persone che hanno oggi problemi di salute, di lavoro, di mancanza di una casa, di fragilità emotiva e sociale, e che non possono aspettare che le "riforme" siano varate sul piano politico e poi concretamente applicate, poiché il loro problema è puntuale e urgente».
«La stagione del riformismo, enfatizzata con l'ideologia della programmazione durante gli anni del primo centrosinistra, - asserisce il Censis - sembra ormai tramontata. Si fa strada, infatti, la legittimazione di una modalità nuova di intervento comune fra soggetti pubblici, privati e singoli individui, che allude più che ad un mix di competenze, ad un modello comunitario in cui abbiano più spazio soluzioni personalizzate e il più possibile immediate. Emblematica al riguardo è la reazione dei Comuni alla crisi economica. A prescindere dall'ammontare delle risorse messe a disposizione, le amministrazioni comunali hanno prodotto uno sforzo di coordinamento e di partecipazione con altre istituzioni locali, sia sul piano territoriale (con altri Comuni, con le Camere di commercio, ecc.), sia con altre istituzioni di livello più elevato, le Regioni e le Province».
«Questa evidenza - prosegue - si collega ad un altro fenomeno a cui il Censis presta attenzione da tempo, ossia il progressivo svuotamento dell'individualismo dai significati pure progressivi che fino ad oggi ha accumulato. A questi aspetti connotati da un segno positivo - la responsabilità o l'impegno a costruirsi spazi di sviluppo in tanti campi, dal lavoro alle relazioni interpersonali private e non -, si sono aggiunti anche elementi più sfuggenti, fra cui la convinzione che ciascuno, nell'ambito della sua dimensione individuale, possa esercitare infiniti gradi di libertà. Quando l'unico limite alla esasperazione dei propri comportamenti diventa la prefigurazione di un reato, oltre all'impunità cresce anche la solitudine sociale, poiché ciascuno può trasgredire senza il rischio dell'indignazione sociale e con molte probabilità di non essere sanzionato».
Non a caso il Censis segnala che « il sentimento dominante è la paura che una tassazione eccessiva possa erodere il proprio potere d'acquisto» ma «è evidente che nei momenti di crisi economica la tentazione di non pagare le imposte dovute si fa più consistente. Non a caso, l'evasione fiscale è segnalata tra le questioni prioritarie dal 21% degli italiani, sopravanzata da problemi quali la disoccupazione, la criminalità, la povertà, l'immigrazione extracomunitaria, l'inefficienza del sistema sanitario».
Niente di particolarmente nuovo, mentre il fenomeno davvero in ascesa è quello dell'utilizzo dei media: se si sommano i quantitativi medi di tempo trascorso quotidianamente utilizzando i principali media, risulta un ammontare cumulativo "virtuale" di 13 ore e 54 minuti al giorno: più del tempo effettivamente a disposizione durante la giornata attiva. I frammenti dei tempi mediatici, infatti, si accavallano e si sovrappongono, stando permanentemente immersi nel flusso simultaneo della comunicazione. Questa recente evoluzione - prosegue il Censis - spiega anche la crescita esponenziale degli utenti dei social network, e di Facebook in particolare, riproponendo all'attenzione il problema dell'uso del tempo personale, sempre più stringato e frammentato. Il 26,8% degli utenti, ad esempio, si è accorto di dedicare meno tempo ad altre attività a causa di Facebook (dalla lettura al lavoro, dal cinema alla frequentazione degli amici), indebolendo di fatto la propria capacità dialettica complessa e i legami sociali»
Altro dato di grande interesse quello relativo alla "violenza di prossimità nel quotidiano". Il conflitto sociale è andato progressivamente attenuandosi - dice il Censis - negli ultimi anni. In un decennio si sono dimezzate le ore di sciopero, il conflitto pubblico è in calo, si riduce il numero di cause civili sopravvenute presso gli uffici del Giudice di pace e i tribunali (-9% tra il 2004 e il 2007). Le tensioni sociali non si incanalano in forme organizzate, ma scelgono la via del conflitto privato, restringendo il loro campo alla dimensione domestica o condominiale. Il conflitto si è trasferito dalle piazze ai cortili». Il conflitto sociale, che è il sale della politica, si è dunque trasformato in violenza domestica, una tragedia e da questo punto di vista è un bene che invece lo si torni a far valere se pur virtualmente con le manifestazioni come quella di domani.
Il punto è che per un modello di sviluppo diverso ambientalmente e socialmente serve una politica capace di programmare, ma questo nel nostro Paese lo dice anche il Censis non esiste più. «Il pensiero non può che andare alla difesa idrogeologica, qualcosa della cui importanza tutti si ricordano solo in occasione delle ricorrenti catastrofi che interessano il nostro territorio. L'alluvione che ha devastato il messinese è solo l'ultimo di una serie di eventi disastrosi che dal dopoguerra a oggi hanno determinato la perdita complessiva di 1.446 vite umane e un costo per la collettività di circa 16,6 miliardi di euro (al netto delle tragedie del Vajont del '63 e della Val di Stava del 1985, che solo tecnicamente non possono essere inserite tra i fenomeni alluvionali e che hanno causato rispettivamente 1.909 e 265 vittime)».
«Se si considera la popolazione esposta al rischio sismico (quasi 3 milioni di abitanti, se si considerano le aree classificate a rischio "elevatissimo", ma circa 24 milioni se si considerano anche le aree a rischio "elevato"), appare evidente quanto il nostro Paese avrebbe dovuto mettere in campo, nel tempo, nel settore dell'edilizia antisismica». Per non parlare di quanto avrebbe dovuto combattere l'abusivismo edilizio.
Ma l'Italia è il Paese delle emergenze: «Lo sanno bene gli italiani, grandi frequentatori ed estimatori dei reparti di Pronto soccorso. Quanto più la minaccia è percepita come grave - prosegue il Censis -, tanto più la si ritiene bisognosa di una risposta immediata da ricercarsi nel sistema più strutturato che gestisce le emergenze e le situazioni complesse (...). La peculiarità tutta italiana, sempre più marcata in questi ultimi tempi, sta appunto in questa tendenza che vede la risposta emergenziale declinarsi come risposta ordinaria a cui si tende ad attribuire anche il massimo livello di efficacia. Si tratta della stessa dinamica e della stessa motivazione di fondo che sta dietro al sempre più massiccio ricorso agli interventi della Protezione civile. Benché siano sempre gli interventi legati alle calamità naturali e agli incendi a risultare prevalenti, si registra un certo incremento di attività poste in essere per fronteggiare altri tipi di eventi. È il caso, ad esempio, dello smaltimento dei rifiuti (che, pure, ha talvolta assunto la connotazione di una vera emergenza), della gestione dei grandi eventi, del traffico e del patrimonio artistico, degli interventi su stranieri e nomadi Ed è proprio questo aspetto, la gestione emergenziale che riesce ad essere tempestiva e quindi efficace perché può superare le farraginose regole dell'ordinaria amministrazione, che può contribuire a spiegare anche il ricorso sempre più massiccio ai Commissari straordinari per la gestione delle emergenze più gravi».
Tutto torna quindi: la pianificazione è morta, l'improvvisazione regna sovrana, l'emergenza sblocca ogni cosa e scomparsi i luoghi dove si poteva pensare il futuro, ci si affida ai social network e a chi sembra avere ancora voglia di ribellarsi. Ma se non si riempie il conflitto con un'idea politica di lungo respiro si rischia di vanificare anche le migliori intenzioni.