[09/12/2009] News
GROSSETO. Il vertice sul clima di Copenhagen al terzo giorno di incontri fa già scaldare gli animi schierando da una parte il mondo ricco e dall'altro quello povero su cui i cambiamenti climatici stanno già sortendo i propri effetti. Il motivo scatenante è stato un documento preparato dal governo danese ospitante la Cop 15- e pubblicata dal Guardian- che anticipa quella che potrebbe essere la bozza del documento finale La bozza delinea l'obiettivo di un taglio delle emissioni globali nel più breve tempo possibile e comunque non oltre il 2020, riconoscendo che i paesi sviluppati collettivamente hanno già raggiunto il picco ma che anche i paesi in via di sviluppo lo raggiungeranno, anche se con tempi più lunghi.
Per questo si indica l'obiettivo, per i paesi industrializzati, di ridurre le proprie emissioni di Co2 del 50% al 2050,rispetto ai livelli del 1990 e pari ad almeno il 58% rispetto al 2005, ma si indica anche la necessità di una riduzione delle emissioni al 2020 per i paesi a economia emergente, senza comunque indicare percentuali che dovranno essere scritte sulla base delle trattative in corso, la settimana prossima. Una percentuale che non dovrebbe essere confrontata ai livelli attuali quanto piuttosto ad uno scenario business as usual; ma comunque quello che appare certo è il fatto che se nel protocollo di Kyoto i paesi in via di sviluppo erano esentati dagli obblighi di riduzione, secondo i paesi industrializzati questo non sarà più possibile nel futuro accordo.
«La reazione da parte dei Paesi del sud è stata immediata, soprattutto nei confronti della Presidenza danese che, per ruolo, dovrebbe essere sostanzialmente super partes» ci spiegano Antonio Zoratti di Fair e Santo Grammatico di Legambiente in delegazione a Copenhagen.
E la rabbia dei Paesi poveri ha suscitato una serie di manifestazioni di piazza, che si sono moltiplicate nel giro di poche ore. Davanti all'entrata della Cop15 erano tre oggi i gruppi di manifestanti: da una parte gli attivisti di Actionaid Copenaghen tutti vestiti di rosso con il cappello nero, in stile Michael Jackson, disposti a coro e con un grande manifesto che dice: «I paesi ricchi paghino il loro debito».
Di fronte a loro un gruppo misto di paesi in via di sviluppo, tra Africa e Sudamerica che chiedevano «giustizia climatica», infine un grande cartellone con tante storie di chi ha già vissuto sulla propria pelle i disastri climatici.
Una anticipazione di quelle che sono le attività in corso in vista delle mobilitazioni del prossimo 12 e 16 dicembre che, dicono Zoratti e Grammatico, «dimostrano che il movimento dei movimenti è tutt'altro che scomparso. Al contrario è capace di azione e di proposta, come il documento politico firmato da quasi 200 organizzazioni e movimenti indiani ed inviato al primo ministro Manmohan Singh per denunciare l'insostenibilità della posizione indiana, che parla di emissioni procapite di Co2 molto basse e quindi non passibili di drastici tagli.>>
In realtà la coalizione di firmatari sottolinea che la quantità di emissioni procapite è calcolata sulla totalità della popolazione indiana che conta centinaia di milioni di poveri che non hanno i livelli di consumo delle élite ricche e privilegiate, che, al contrario, hanno stili di vita energivori assolutamente confrontabili con quelli europei. «Per questo la risposta non può essere solamente ambientale, ma anche sociale, redistribuendo il reddito ed imponendo alla classe ricca indiana (e globale) uno stile di vita più sostenibile».
Quindi al terzo giorno del vertice le divisioni diventano evidenti sotto tutte le angolature.
«Semmai ce ne fosse stato bisogno, Copenhagen è la ratifica che il mondo è diventato multipolare.- scrivono Zoratti e Grammatico- Esattamente come in altri consessi internazionali, tipo la Wto, anche alla Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici i Paesi emergenti sono diventati il vero ed unico interlocutore della potenza mondiale ed il principale inquinatore procapite per eccellenza, gli Stati Uniti».
Ma aggiungono «la convergenza tra India, Cina ed altri Paesi facenti parte del G77, gruppo informale che riassume molte economie emergenti del terzo millennio, porterà all'elaborazione di un testo alternativo rispetto alla bozza ufficiale, sottolineando le responsabilità storiche dell'inquinamento e soprattutto dell'aumento della concentrazione di Co2 nell'atmosfera, riprendendo nei fatti la dichiarazione della Bolivia della scorsa settimana che ha riproposto la responsabilità differenziata e soprattutto la creazione di una Corte internazionale sul clima».
La reazione dei paesi del G77 alla bozza preparata dal governo danese, oltre al fatto che il processo di riduzione delle emissioni resterebbe comunque tagliato su misura per i Paesi più ricchi, che manterrebbero diritti di emissione pro-capite doppi rispetto a quelli meno industrializzati, punta l'indice anche sul sistema dei controlli.
Il controllo del rispetto del taglio delle emissioni nocive potrebbe infatti essere avocato all'Onu e delegato ad un organismo quale la Banca mondiale, nel quale, evidentemente, i Paesi in via di sviluppo sanno di contare ancora meno che a Palazzo di vetro e dove invece è maggiore il controllo da parte dei paesi industrializzati.
«Il rischio ventilato- spiegano ancora Zoratti e Grammatico, in merito alla bozza danese- è che le pratiche, spesso poco democratiche, viste all'Organizzazione Mondiale del Commercio dove "i Paesi che contano" spesso si riuniscono a porte chiuse (le green room) con l'obiettivo di condizionare i lavori ufficiali, possano sbarcare anche alle Nazioni Unite, per definizione democratiche e trasparenti».
Quindi i due rappresentanti delle ong italiane aggiungono: «Movimenti sociali e organizzazioni di base sono avvertite: il lavoro di continuo monitoraggio da parte della società civile diventa in questi giorni una garanzia di trasparenza: clima ed economia globale, o si affrontano insieme o, il rischio, è che perda il pianeta».