[11/12/2009] News
LIVORNO. Su Repubblica di ieri Francesco Erbani titolava - "noi urbanisti abbiamo fallito" - un lungo articolo autocritico e interpella alcuni "padri" di questa disciplina. Riporta, nello spazio di una pagina, citazioni di Benevolo, Salzano, Cervellati; individua nodi critici, rinvia alle responsabilità della politica, non trae conclusioni, ma delinea un quadro sconfortante.
Tuttavia, è una occasione interessante per lanciare delle provocazioni tanto più se ricollegate al dibattito sul report Irpet "La Toscana nel 2030".
Ebbene si, l'urbanistica ha fallito e questo fallimento ha molti padri. Uno è la politica che porta la maggiore responsabilità perché ha finito per guardare solo al contingente e rifiutare visioni di lungo periodo, perché non ha saputo scegliere tra rendite immediate e capitalizzazioni per il futuro. Ha puntato così sul mattone, non sul reale governo delle risorse, non ha fatto distinzioni, ha scelto ovunque lo sviluppo "multipolare", cioè ha tenuto le porte aperte a tutto il possibile. Ovvero non ha scelto.
Ha pensato, o forse è meglio dire ha sperato, che turismo e agriturismo potessero trasformare un'economia industriale sempre più matura in una economia sostenibile, senza fare di conto perché il turismo ha effetti ambientali non secondari e il moltiplicatore delle attività industriali è pur sempre superiore (in termini economici e occupazionali) di quello di altre attività.
E allora potremmo dire che menomale che poi ci sono "le bolle" e un ridimensionamento; anche se amaramente dobbiamo sottolineare che non era difficile vedere che alle Camere di commercio cresceva solo il numero delle imprese operanti nel settore immobiliare e delle costruzioni.
Ma una grande responsabilità l'hanno pure gli urbanistici, dentro e fuori le università, nella libera professione e nelle istituzioni.
La generazione di coloro che hanno oggi tra sessanta e ottanta anni, raramente, ha creato una vera scuola e degli eredi, cioè non ha coltivato il futuro. Passata la generazione dei cinquantenni, che ha respirato i rivolgimenti del sessantotto e dei primi anni settanta, il rischio reale è che venga meno l'urbanistica. Però, se possibile, c'è anche di peggio, perché è stato portato a compimento il tracollo di istituzioni culturali storiche come l'Inu (Istituto nazionale di urbanistica), che da voce critica sull'errato presupposto dell'approdo al governo nazionale della sinistra, è stato progressivamente trasformato - a livello nazionale e regionale - in promotore di eventi accademici e forse anche commerciali, oppure in "supporter" della rappresentanza di governo del momento. La contestazione e la proposta sono trapassate e non è un caso che dalle leggi 10 del 1977 e 457 del 1978 non si registra niente di nuovo se non la parossistica ricerca di strumenti sperimentali per cofinanziare il privato sotto l'egida del ministero dei lavori pubblici e di relativi ingegnosi dirigenti.
Se si considera che in dieci anni sono stati consumati 750000 ettari di suolo, se si considera il degrado urbano e delle nostre campagne, la fine di qualsivoglia politica per la casa, non si può però solo annunciare un fallimento. Occorre provare ad andare oltre.
Personalmente non ritengo di aver fallito, ma sono stato, sono, un urbanista tipo medico condotto che accumula sconfitte ma resiste. Ritengo però sconfortante il conformismo e l'acquiescenza verso il potere di turno di urbanisti, categorie professionali e imprenditoriali e via discorrendo, e riterrei negativo non fare niente. Lo spazio di confronto offerto da Greenreport è allora importante e per questo propongo di avere Greenreport quale sponda e alleato per lanciare il progetto di un forum di discussione.
Troviamoci, mandate a questo indirizzo mail m-parigiurbanistica@virgilio.it la vostra adesione per un incontro da tenersi a gennaio- febbraio per discutere del futuro dell'urbanistica, per ricercare le basi di un nuovo inizio, per provare a cambiare; chiediamo a Greenreport uno spazio on line di discussione. Qualcuno dirà è dura, è velleitario, può essere, ma credo sarebbe peggio non provarci.