[14/12/2009] News

Oltre il Novecento di Marco Revelli

Non saprei dire se "Oltre il Novecento" di Marco Revelli sia "un libro anticomunista", come disse Luigi Pintor che sulle colonne del "manifesto", quotidiano di cui Revelli era uno dei più illustri collaboratori, stroncò il saggio pubblicato nel 2001. Di sicuro, l'analisi dell'amato-odiato - dalla sinistra - docente di Scienza della politica che ha dedicato molti dei suoi studi al mondo del lavoro, contiene non pochi spunti per una riflessione su un diverso "sistema" di produzione. Diverso dal fordismo di inizio secolo e dal suo paradigma economico dominato da un solo prodotto (l'automobile). Diverso dal metodo toyota (quello della "produzione snella" e del "just in time") che del fordismo ha solo allentato alcune rigidità contribuendo ad affermare il post-fordismo. Diverso da tutte e due queste idee di sviluppo che si basano su una comune premessa: le risorse non rinnovabili da cui dipende la produzione industriale sono illimitate o comunque c'è l'illusione che lo siano.  

Il sistema nato nelle fabbriche americane, infatti,  è stato modificato, ma solo in parte. Le radici di crisi del fordismo, secondo Revelli, sono tre. La prima è di natura culturale e ha preso corpo intorno alle idee del "Club di Roma" di Aurelio Peccei, idee confluite poi nel "The limits to Groswth", e successivamente in "Beyond the limits": le risorse non rinnovabili da cui dipende la base industriale si esauriranno, dicono intellettuali e esperti internazionali. Ma il post-fordismo non fa tesoro del nuovo messaggio e se lo porta dentro come "una sorta di velo funebre sceso a oscurare l'ottimismo produttivistico del passato, nella forma di un brusco ravvicinamento dell'orizzonte e nell'abitudine interiorizzata a non più pianificare il futuro ma a cogliere l'attimo fuggente, a navigare a vista, a vivere nell'incertezza". La seconda radice di crisi si concretizza con  l'affermazione dell'uso dei computer e dei micro-computer, una vera rivoluzione nelle fabbriche che ha prodotto il mutamento dei modelli organizzativi e dei processi di produzione. Terza ma non ultima per importanza radice, è l'effetto dirompente dell'ingresso massiccio nel mondo del lavoro delle donne con la loro contestazione della gerarchizzazione tra lavoro femminile e maschile. Ebbene, le tre radici non hanno distrutto un sistema che si fonda sul "senso dell'illimitato" ma lo hanno solo mutato in qualcosa d'altro. Le debolezze della catena di montaggio e della standardizzazione del prodotto, insomma, hanno aperto la strada a una sorta di "fordismo dopo la crisi dell'idea di sviluppo", alla variante assunta dal fordismo "nel dopo sviluppo".

Una discontinuità nel sistema di lavoro novecentesco che di fatto non ha cambiato il ruolo del lavoratore, l'idea di mercificazione, l'aspetto totalizzante del lavoro. Ed è proprio qui il messaggio di rottura di Revelli. Secondo lo storico piemontese, per uscire dai vizi del secolo del lavoro che tante disgrazie ha prodotto, non dobbiamo aspettare «le conseguenze dello spontaneo processo di evoluzione dell'economia e della tecnologia». No. Il cambiamento del sistema «se un'uscita e un'emancipazione ci sarà, presupporrà un'azione consapevole, fortemente voluta da una pluralità di soggetti determinati a riprendere attivamente il futuro della società nelle proprie mani». Ciò che preoccupa Revelli, infatti, è l'uso che l'uomo fa dei "poteri" tecnologici e degli strumenti culturali che hanno caratterizzato il Novecento. Partendo dal concetto dell'"eterogenesi dei fini", idea fondante del suo saggio, ricorda i disastri del secolo più sanguinoso di tutta l'esistenza umana (110 milioni le vittime delle guerre). La bomba di Hiroshima, che ben rappresenta il carattere ossimorico del vecchio secolo spaccato in due tra grandi progressi (tecnologici) e immani atrocità (l'Olocausto), è un esempio perfetto: un gruppo di scienziati che intendevano costruire l'arma adeguata alla distruzione della tirannide novecentesca (il nazismo lanciato alla conquista del mondo), finirono per produrre, oltre a migliaia di morti, il "tiranno tecnologico assoluto".

Altro esempio di "eterogenesi" lo troviamo nelle tanto criticate - da sinistra - pagine dedicate al comunismo. Secondo Revelli, nell'Urss e nei paesi del blocco comunista, sono stati i mezzi stessi a distruggere il fine. Per lo storico figlio del partigiano Nuto Revelli, «l'esperienza vissuta del socialismo reale ha finito per decostruire l'identità stessa del comunismo ideale chiudendone l'orizzonte». Ma la "consapevolezza", o per meglio dire la mancanza di consapevolezza, alla quale si riferisce Revelli, la troviamo ancora in modo più chiaro nel prodotto dei deliri dell'"homo faber", perché il tratto comune dei vari protagonisti di "eterogenesi dei fini", consiste nel fatto che "tutti lavoriamo". E' stato infatti proprio il lavoro, quello fordista, a creare molte delle disgrazie del Novecento. Non il lavoro impregnato di artigianalità e di mestiere che privilegiava il "saper fare", il controllo e a misura, ma il lavoro meccanizzato e burocratizzato. Lo stesso nel quale si consuma la separazione dell'opera dall'operaio. Ed è qui che si  insinua il concetto del  "mostruoso", fondato sulla meccanizzazione e sulla sproporzione. Un vicolo cieco che ha portato alla perdita di controllo e di "consapevolezza".

Per paradosso, l'anomalia nasce dal fatto che nel Novecento tutti lavorano. Lavorano i comandanti dei campi di sterminio che con tempi e metodi da fabbrica mettono in atto lo sterminio. E a questo proposito è agghiacciante la testimonianza di Franz Stangl, direttore del campo di concentramento di Treblinka: «il lavoro di uccidere con il gas e bruciare cinque e in alcuni campi ventimila persone in 24 ore, richiede massima efficienza - ha detto Stangl spiegando i suoi compiti». Lavora Eichmann quando "banalmente" e da "uomo normale", ma de-responsabilizzato, organizza e sposta i treni carichi di ebrei. Lavora il  colonnello Tibbets che dall'Enola Gay sgancia la bomba atomica su Hiroshima. Lavora l'"operaio totale" che con i suoi deliri è stato protagonista e attore degli orrori novecenteschi. Lavora l'uomo del "secolo del lavoro" e dei i suoi vizi dai quali, secondo Revelli, "ci possiamo emancipare, se un'uscita o un'emancipazione ci sarà, con un'azione consapevole". Che nel Novecento, a ben guardare i risultati prodotto, è mancata.

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