[22/01/2010] News toscana
FIRENZE. Situato sulle colline tra Firenze e Vaglia (località Pratolino), ma contenuto nei confini del comune di Sesto fiorentino, l'ex-ospedale Luzzi è da anni occupato da famiglie disagiate, soprattutto straniere. Gli occupanti comprendevano, prima della scorsa estate, circa 400 persone, di cui 90 bambini. La proprietà della struttura è tuttora pubblica, ed è appannaggio dell'Asl locale.
Dopo anni di dibattito sulla destinazione dell'area (in particolare sul permanere o meno della sua natura pubblica), il 9 agosto scorso è partito lo sgombero della struttura, che sta proseguendo in questi giorni, ma che difficilmente giungerà a compimento in tempi brevi, a meno che non vengano preferite soluzioni di forza che per ora, fortunatamente, non sono state messe in atto e vengono comunque escluse.
Per il futuro dell'area, a causa della sua natura privilegiata in termini paesaggistici, ambientali (l'area è di grande pregio, dista qualche km dai centri abitati più vicini, ed è anche presente un parco di oltre 10 Ha) e logistici, si sprecano i progetti per la sua vendita ai privati, con destinazione finale che più probabilmente dovrebbe essere quella di una struttura ricettiva turistica, anche se non sono esclusi progetti di sviluppo residenziale.
Una proposta alternativa era stata avanzata fin dall'autunno 2008 da alcuni esponenti del Laboratorio di progettazione ecologica degli insediamenti (Lapei) della facoltà di Architettura dell'università di Firenze e della fondazione Michelucci: essa prevedeva di fare del Luzzi un "case study" per sperimentare l'apertura di un processo partecipativo a cui - e qui stava la novità, almeno per l'Italia e la Toscana - avrebbero preso parte, come stakeholder con pari dignità rispetto a tutti gli altri (enti pubblici, privati, aziende, cittadini residenti in zona), anche alcuni degli occupanti stessi.
Il progetto si è poi arenato, anche a causa del fatto che l'obiettivo delle autorità pubbliche (sia regionali, sia del comune di Sesto) con cui erano entrati in contatto i ricercatori era quello che più volte è stato espresso anche in questi giorni sulla stampa locale: sgomberare completamente - pur escludendo azioni di forza - la struttura, e poi avviarne la conversione verso un riutilizzo pubblico o verso una cessione ai privati.
La proposta del Lapei e della fondazione Michelucci è ancora praticabile? E, oltre agli evidenti (e contemporaneamente stimolanti e problematici) elementi innovativi in direzione dell'inclusione degli immigrati e della sostenibilità sociale, esistono anche elementi di essa in direzione della sostenibilità ambientale? Lo abbiamo chiesto a Fabio Salbitano, docente di Ecologia del Paesaggio presso le facoltà di Agraria e Architettura dell'Università di Firenze ed esperto di progetti partecipativi, che ha preso parte alla discussione promossa nell'ambito del "cantiere Luzzi" nell'autunno 2009.
Professor Salbitano, il progetto citato è ancora attuabile? Il Luzzi potrebbe diventare un case-study della partecipazione toscana?
«E' molto difficile. Il motivo è legato al fatto che le condizioni socio-economiche degli occupanti, e anche il fatto che lì sono ospitate persone di svariate etnie, fa sì che spesso non ci sia né la volontà, né la possibilità, di prendere parte al processo partecipativo. L'obiettivo dell'iniziativa, cioè, sarebbe tra le altre cose anche quello di evolvere il loro coinvolgimento sociale, facendo comprendere loro, per esempio, l'utilità di un processo partecipativo. Ma queste persone hanno ben altri problemi».
Quindi al processo partecipativo prenderebbero parte anche gli occupanti stessi. Ma l'iniziativa ha dei precedenti in altri contesti regionali, toscani o italiani?
«Da noi, a quel che mi risulta, no. All'estero, posso citare l'esperienza di Uppsala (Svezia) dove fu fatto un progetto partecipato finalizzato ad unire integrazione ed educazione ambientale in aree disagiate, e che passava per le scuole ma non solo: ad esso, anche se i numeri a questo riguardo sono come si può immaginare diversi rispetto all'Italia, presero parte anche delle persone che vivevano in stato di clandestinità.
Va citata anche l'esperienza di Nairobi (Kenya), dove nel 2001 fu intrapreso un progetto per gli abitanti abusivi di un quartiere particolarmente disagiato, a cui veniva offerto appoggio e sostegno per creare micro-imprese familiari. Ma lì si trattava, comunque, di persone povere, e molto, ma non di clandestini. E questo non crea i problemi che ci sono qui.
A questo proposito, l'iniziativa sarebbe effettivamente "inquadrabile" nei cardini della legge regionale 69/07 sulla partecipazione?
«Si, ma c'è un problema proprio di natura giuridica: la lr 69 prevede sì una partecipazione sia "dal basso" che "dall'alto", ma essa è prevista correre sempre nei confini della legalità: e molte di queste persone sono "fuori dalla legalità", in quanto clandestini. Questo limita le possibilità di partecipazione».
L'iniziativa, pur nelle mille criticità rappresentate da un caso come quello in questione, appare interessante alla luce di una maggiore inclusione sociale per gli occupanti e in generale per gli aspetti legati all'integrazione, anche con le comunità locali. Ma quali sono i possibili "indotti" di essa in direzione della sostenibilità ambientale?
«Ci sono vari aspetti che potenzialmente potrebbero avere un ruolo in questo senso: anzitutto, queste persone potrebbero essere una risorsa per contribuire ad una gestione sostenibile e attiva dell'ambiente regionale, qualcosa che potrebbe porsi come "via di mezzo" tra l'abbandono in cui si trovano molti boschi della Regione e un utilizzo troppo spinto di essi. Sarebbe, quella del controllo del territorio, un'opportunità utile anche per persone che vivono tuttora ai margini della società.
Inoltre, è possibile pensare che l'eventuale iniziativa partecipata potrebbe diventare un laboratorio "dal basso" per la sostenibilità ambientale: la risistemazione della zona e le eventuali nuove strutture potrebbero comprendere l'utilizzo di soli materiali riciclati, di sole energie rinnovabili, e così via.
Un'esperienza di questo tipo è stata messa in atto nei docks di Amsterdam (Olanda): nei magazzini abbandonati, che erano stati poi occupati, è stata attuata un'esperienza di housing sociale che per i caratteri che ha assunto è stata un modello di sostenibilità ambientale dal punto di vista edificativo e abitativo. Inoltre, non è stato fatto un benché minimo consumo di suolo aggiuntivo, ma solo "riuso" di strutture già esistenti e altrimenti abbandonate. Riguardo a Pratolino infine, a mio parere, è molto meno sostenibile pensare di trasformare in un super-resort una struttura pubblica di quel genere, piuttosto che pensare ad un progetto di evoluzione per quella che è la - pur difficile - situazione attuale».