[01/02/2010] News

La lunga marcia verso un nuovo paradigma economico sconta l'impasse dell'azione globale

LIVORNO. Se sull'analisi della crisi (o meglio delle crisi) e sull'orizzonte verso cui tendere qualcosa si sta muovendo, è l'impasse sulla capacità di cambiare il paradigma economico imperante - riconvertendolo verso uno più sostenibile ambientalmente e socialmente - che preoccupa e non poco. Il quadro emerge da Davos, ma anche dai dibattiti in corso sui territori e in particolare in Toscana. L'ultimo sasso in questo senso lo ha lanciato ieri su Repubblica Riccardo Varaldo, presidente della Scuola superiore Sant´Anna di Pisa, spendendosi in  "Tre proposte per una politica industriale che rilanci davvero la Toscana".

Sostiene Varaldo giustamente che con la crisi  «Mentre in altre regioni il processo di adattamento al nuovo scenario competitivo è stato, pur tra luci ed ombre, abbastanza efficace, in Toscana è risultato molto più lento e meno produttivo. Il che non ha consentito alle nostre imprese di presentarsi all´appuntamento con la crisi strutturalmente meno fragili e più dotate in fatto di capacità di reazione e di rilancio».

Per questo  «si avverte il bisogno di guardare oltre, ovvero di compiere una riflessione sul futuro dell´economia toscana per passare da una fase di interventi dettati dall´urgenza ad una vera politica industriale con cui mirare all´evoluzione piuttosto che alla sopravvivenza». Da questa lucida analisi le tre riflessioni-proposte: «La prima riguarda il modello imprenditoriale tipico della realtà toscana che da tempo sta segnando il passo e che con la crisi si è ulteriormente indebolito. Si sta evidenziando l´errore politico - strategico di aver dato fiato ad una cultura anti-industrialista che ha portato a tararsi sul «piccolo è bello» e nel contempo a creare un ambiente sociale e politico-istituzionale poco adatto alla formazione di un solido tessuto di medie imprese ed alla valorizzazione della presenza di grandi imprese, sotto il profilo delle ricadute economiche ed occupazionali di qualità, e delle spinte all´innovazione e ad una internazionalizzazione evoluta. (...). Il nuovo governo regionale dovrà impegnarsi a fondo nell´acquisire e promuovere la consapevolezza che l´economia della conoscenza e dell´innovazione è un intreccio che presuppone una università aperta e pro-attiva nel cogliere le nuove istanze e nell´offrire soluzioni ai problemi di peso della società e del mondo produttivo».

«La terza riflessione - infine - riguarda i limiti di una industrializzazione concentrata lungo la valle dell´Arno, con l´esclusione di gran parte della cosiddetta Toscana interna, che ha portato ad una regione fortemente dualistica (...). Il superamento di questo dualismo è uno dei primi obiettivi di una strategia di riequilibrio territoriale in cui c´è da giocare la carta della green economy, con la Toscana interna che può ricoprire un ruolo chiave per un nuovo modello di sviluppo sostenibile».

Da queste tre proposte-riflessioni si arriva alla conclusione netta e piuttosto convincente: «Questa linea di pensiero e di azione sconta una logica di discontinuità dove i canoni della crescita endogena - basata sulla conoscenza, sulla creatività e sul capitale umano qualificato - devono coniugarsi con l´obiettivo di attivare un processo di accumulazione che orienti le scelte strategiche verso nuove attività con forti radicamenti nel contesto - artistico-culturale, scientifico-tecnologico, ambientale - paesaggistico e imprenditoriale - proprio della Toscana e capaci di attrarre talenti e capitali dall´esterno. Solo così è possibile creare nuove opportunità di investimento, con dimostrate possibilità di generare utili adeguati in futuro, tali da consentire le necessarie combinazioni e aggregazioni di capitali pubblici e di capitali privati».

Di fondo quindi è necessario (anche in Toscana) un nuovo paradigma economico messaggio che arriva forte e chiaro persino da Davos come raccontava sempre ieri Moisés Naím sul Sole24Ore: «I no global sono di moda. Ogni anno i manifestanti contro la globalizzazione contestano il Forum. Quest'anno si trovavano all'interno del centro congressi ed erano capitanati da Nicolas Sarkozy. Il discorso del presidente francese conteneva frasi prese direttamente dagli striscioni dei manifestanti. E non si è trattato solo di Sarkozy. Frequenti sono stati i mea culpa, le denunce di situazioni inaccettabili - dalla povertà al degrado ambientale -, e la consapevolezza che un capitalismo sostenibile e più giusto sia necessario».

Forte e chiaro, no? Ma poi ammette: «Credo che vedremo un certo progresso in questa direzione. Peccato che si tratterà di meno di quanto promesso e molto meno di quanto necessario». Perché? «Uno dei malesseri più comuni che ho potuto percepire quest'anno è che mentre i problemi aumentano e si moltiplicano, la capacità di affrontarli sembra diminuire. L'ingranaggio che prende le decisioni risulta bloccato in ogni sua componente. Sono pochi a credere che le Nazioni Unite o altri organismi multilaterali sappiano quello che stanno facendo o possiedano le risorse necessarie per agire con efficacia. Anche le grandi potenze sembrano paralizzate. Il G-8 è ormai una reliquia e il suo sostituto, il G-20, è diviso. La sconfitta di Copenhagen è solo un sintomo di un mondo che è costretto ad agire congiuntamente in molti ambiti ma che non è in grado di farlo. La tragedia di Haiti, molto presente nei discorsi a Davos, è il simbolo di altre emergenze per cui, assente qualcuno che assuma le responsabilità, la solidarietà mondiale produce confusione a causa del mancato coordinamento, e genera morti che avrebbero potuto essere salvati».

Ecco dunque l'impasse a cui alludevamo prima e che appare chiara anche leggendo quanto scrive Francesco Piccioni sul Manifesto relativamente alla due gironi organizzata all'Università di Siena dove si sono misurati sulla crisi fior di economisti: «l'afasia del «neoliberismo» travolto dalla crisi non ha riaperto la strada ai vecchi avversari. La prospettiva keynesiana si scontra con l'inesistenza di un'autorità statuale mondiale, che possa pianificare un «intervento pubblico» tale da rimettere la macchina sui binari della crescita (e, come avvisa Alessandro Vercelli, quando questo dovesse avvenire, ci sarebbe un'esplosione dei prezzi delle materie prime - energetiche e non - tale da bruciarne molte potenzialità).

Né gli attuali governo mondiali più importanti si mostrano capaci di impostare una strategia comune di fronte a soggetti - come molte società della finanza globale - che non conoscono confini e a volte superano gli stessi stati quanto a potere economico». Qui l'analisi di fa ancor più profonda e politica: «I marxisti hanno mostrato qualche freccia in più sul piano dell'analisi, ma su quello delle proposte di politica economica si trovano davanti all'identico problema: quale soggetto ha oggi la forza per agire sul piano globale? Un esempio può chiarire meglio di cento discorsi: gli stessi Stati uniti, di fronte a questi problemi, sembrano muoversi su un piano «micro»; ossia determinato dal bisogno di rispondere agli input sociali interni, piuttosto che alle esigenze di riequilibrio sistemico globale. E' il paradosso che attanaglia il pianeta da almeno 20 anni, ma che questa crisi mette in evidenza: siamo nel bel mezzo di terremoti globali a diffusione istantanea, le cui dimensioni eccedono di gran lunga la portata degli strumenti operativi fin qui usati e la stessa statura dei soggetti attivi. Indietro non si può tornare, per andare avanti mancano le strade».

La quadratura del cerchio appare ancora, quindi, lontana, nonostante i tempi delle crisi in atto imporrebbero invece una marcia da Formula Uno. Se l'azione globale è all'impasse, non si vede inoltre, almeno in Italia, un partito in grado di prendere in mano il timone se è vero (come è vero) che se le idee "no global" hanno sfondato persino a Davos non c'è uno che sia uno che possa prendersene il merito... E così c'è un nuovo interrogativo, tra i tanti, che nasce spontaneo ovvero se sia possibile che una nazione o addirittura una regione da sola possa colmare il vuoto di azione globale...

 

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