[09/02/2010] News

Riforma della scuola, Da Pozzo (Unipi): «Per ora la Geografia non è affatto salva…»

FIRENZE. Si «perde un sapere», e non un sapere qualsiasi ma uno dei fondamentali strumenti che possano fornire ai futuri cittadini le nozioni e la forma mentale necessarie per capire e analizzare le trasformazioni cui sottoponiamo il territorio. Questa l'opinione sull'incipiente riforma della didattica nelle scuole superiori espressa da Carlo Da Pozzo, ordinario di Geografia e direttore del master in Turismo e Ambiente presso l'università di Pisa, e presidente della Società italiana di studi geografici.

Anche se il contesto è ancora fumoso, infatti, a quanto sembra risulta per ora confermato il drastico ridimensionamento dell'insegnamento della Geografia, sia dal punto di vista quantitativo sia qualitativo, voluto dall'attuale Governo nazionale. Ciò avrà incidenza - almeno, ripetiamo, nelle ipotesi circolanti in questi giorni - soprattutto negli istituti professionali, dove la materia potrebbe scomparire del tutto dalla didattica. Ma forti ridimensionamenti sono prospettati anche negli istituti tecnici e nel biennio dei licei.

Professor Da Pozzo, il punto sulla situazione?

«Per il momento sembra siano confermate le ipotesi che erano "minacciate": la geografia - come materia a sé stante - "scomparirà" dagli istituti superiori e sarà insegnata insieme alla storia. Prima del decreto si parlava di due ore settimanali, nel decreto si parla invece di 3 ore complessive, di cui due di storia e una di geografia, con una cattedra unica che sarà appannaggio degli attuali insegnanti di storia.

Mi sembra ovvio, quindi, che praticamente si insegnerà solo la storia e non la geografia, perché (pur con tutto il rispetto che va attribuito agli insegnanti di storia) la materia finisce in mano a chi ha una preparazione che non è la stessa. E quindi si perderà un sapere.

Tra l'altro, sia il presidente Berlusconi sia il ministro Gelmini hanno parlato di "adeguamento alla situazione europea": ma mi risulta che la presidentessa della Reale società di geografia del Regno unito ha mandato, proprio in questi giorni, una lettera al ministro in cui si spiega che da loro non solo la geografia è materia obbligatoria, ma anzi dal 2006 sono stati messi in campo ingenti finanziamenti aggiuntivi proprio per rafforzarne la didattica».

Quindi, non è vero che la misura voluta dal governo italiano si richiama alla situazione europea?

«No, in Europa le cose sono differenti rispetto a quanto affermato. Ma, al di là dei confronti con l'Europa, ciò che preoccupa è la mancanza di visione generale, in Italia: si scambia la scienza con la tecnologia, si confondono storia e geografia: ma, anche se i due saperi in un certo senso "collaborano" tra loro, restano cose diverse. E invece si vogliono riunire per risparmiare risorse, almeno secondo quanto affermato.

Ma la geografia è analisi del reale, serve per dare alle persone strumenti per capire e analizzare il territorio, soprattutto alla luce delle trasformazioni che noi stessi abbiamo effettuato, e di cosa abbiamo costruito. E' ben altro, insomma, che la sola misurazione dell'altezza dei monti.

E perché si vuole tagliarne l'insegnamento? Mi viene da pensare che è più facile governare chi non ha gli strumenti sopra citati, rispetto a chi ce li ha: ma questa è forse solo una malignità. Resta invece, di sicuro, una profonda amarezza. Come Società di studi geografici stiamo raccogliendo firme per un appello contro la misura in questione (vedi link in fondo alla pagina, nda), ma resta il fatto che abbiamo, in Italia, una politica molto diversa dal resto d'Europa, una politica che taglia i fondi alla ricerca e alla scuola. E in questo discorso generale si inserisce anche un più specifico discorso relativo alle materie da insegnare o meno».

Come ritiene che andrà a finire?

«Mah, la mia impressione è che un ridimensionamento non ci sarà. Certo, c'è stato un piccolo passo indietro agli annunci iniziali, ma solo perché si sono accorti che - come erano messe le cose all'inizio - era evidente che si faceva solo propaganda. Sarebbe troppo bello un reale ridimensionamento della misura, e quindi si avrà solo il proseguimento di uno dei principali tormentoni che hanno caratterizzato la scuola pubblica negli ultimi 30 anni: e cioè l'attesa di un nuovo ministro, che finalmente cambi davvero le cose in meglio».

La domanda potrà sembrarle inappropriata, perché in realtà la sostenibilità si configura di per sé non come "materia a sé stante", ma come "falda" che impregna il terreno su cui si insegna tutto. Ma comunque, secondo lei la sostenibilità si può insegnare nelle scuole? E come?

«E' difficile dirlo in breve. Ma comunque, da un punto di vista tecnico, ritengo che quando - come prima dicevo - si cerca di fornire a qualcuno gli strumenti per capire come il territorio da noi "costruito" dipenda dall'ambiente originale, e come la nostra azione abbia cambiato questo ambiente, credo che ciò che si insegna sia proprio la sostenibilità. Analizzando questo aspetto, cioè, si danno allo studente indicazioni per riconoscere ciò che è stato fatto e ciò che si può fare in direzione del mantenimento di questo territorio. Un mantenimento attivo, perché è chiaro che non posso certo prima cambiare un territorio e poi abbandonarlo a sé stesso. Questi aspetti si sono affacciati, anche concretamente, nella didattica che viene impartita, almeno da una decina d'anni: prima timidamente, poi in maniera sempre più netta».

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