[08/03/2010] News

Ambiente Italia 2010, le sfide ambientali nelle regioni italiane a cura di Duccio Bianchi e Edoardo Zanchini

L'annuario di Legambiente elaborato dall'Istituto di Ricerche Ambiente Italia quest'anno ha scelto di fare un focus sulle politiche regionali in campo ambientale. Una scelta dettata dal fatto che «le regioni hanno un ruolo consolidato e rappresentano un fattore di stabilità nel panorama politico italiano, sono uno snodo fondamentale nel sistema di governo del paese. E' quindi legittimo interrogarsi - scrive il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza nella sua prefazione - non solo, e non tanto sulle competenze in campo ambientale, quanto sulle politiche che concretamente hanno messo in campo e sul ruolo che potrebbero svolgere».

Motivo ulteriore è il fatto che in gran parte delle regioni è previsto a marzo il rinnovo delle amministrazioni regionali. Il tentativo è allora quello di riempire di contenuti concreti la prossima campagna elettorale e portare nel dibattito elettorale i temi ambientali.

«La sfida che proponiamo ai candidati governatori - spiega ancora Cogliati Dezza -è di cogliere le opportunità che la crisi climatica  e la crisi economica ci propongono, dimostrando l'esaurimento del vecchio modello di sviluppo e la necessità di fare della green economy e della qualità dei territori italiani il punto di forza per rilanciare il paese».

Quindi a fianco dei tradizionali indicatori il rapporto pone anche una significativa analisi delle sfide ambientali che le regioni devono affrontare per promuovere uno sviluppo basato su altri paradigmi rispetto al modello attuale. «Sapendo- scrive Cogliati Dezza - ma questo oggi non lo mette in discussione più nessuno, che parlare di politiche ambientali vuol dire parlare di risposta alla crisi economica, di salute dei cittadini e quindi di prevenzione e di spesa sanitaria, di recupero di aree degradate, di ricerca e innovazione, di lavoro».

I temi scelti su cui approfondire l'analisi sono otto e riguardano l'energia in merito agli obiettivi europei del pacchetto clima-energia, il trasporto su ferro, la gestione dei rifiuti e delle risorse idriche, le politiche estrattive, quelle di difesa del suolo e del freno al consumo di suolo, la tutela della biodiversità attraverso la rete delle aree protette.

Ognuno di questi temi viene declinato in altrettanti capitoli, dove si fa il punto della situazione attuale e si delineano una serie di proposte che gli autori auspicano diventare politiche concrete.

A Edo Ronchi è stato affidato il tema della sfida delle regioni di fronte all'obiettivo europeo di coprire il 20% del fabbisogno energetico con energie rinnovabili, che per l'Italia significa il 17%. Per raggiungerlo sarà necessario più che triplicare le energie rinnovabili consumate per arrivare a 22,25 Mtep al 2020. Un obiettivo che senza l'adeguato impegno da parte delle regioni «non vi è alcuna concreta possibilità di raggiungerlo».

Il 17% posto come target per l'Italia potrà infatti essere ripartito con un 15,4% di produzione nazionale ripartita regionalmente e un 1,6% di energie rinnovabili importate. Ma gli obiettivi europei per il 2020 comprendono anche la riduzione del 20% delle emissioni di anidride carbonica, cui può dare un contributo importante il settore dei trasporti.

Un settore in cui i finanziamenti statali che si sono succeduti nel primo decennio del nuovo secolo hanno premiato per il 67% gli investimenti in strade e autostrade, solo per il 13% le linee ferroviarie e per il 20% le linee metropolitane.  E le regioni non sono state da meno dove gli investimenti aggiuntivi sul settore del trasporto ferroviario regionale non hanno raggiunto, in media, più dello 0,1% del bilancio.  Talmente basse le risorse stanziate «da apparire offensive» scrivono gli autori del capitolo, Edoardo Zanchini e Gabriele Nanni. «Paragonando poi  i finanziamenti alla domanda di mobilità ferroviaria risulta evidente che in quasi tutte le realtà le risorse stanziate sono del tutto insufficienti e spiegano perfettamente il motivo per cui ogni giorno i cittadini italiani sono costretti a viaggiare su treni vecchi e affollati».

Sempre volendo utilizzare come linea di conduzione l'obiettivo di riduzione della CO2, appare evidente come, ad esempio, un corretto consumo di suolo potrebbe dare un contributo rilevante.

A tale proposito l'autore dell'analisi relativa al consumo di suolo, Damiano Di Simine, cita il recente rapporto della Commissione europea «che svela come i suoli europei contengano da 73 a 79 miliardi di tonnellate di carbonio e che pertanto ogni perdita anche solo dello 0,1% di questo carbonio equivale all'emissione di CO2 prodotta da un aumento di ben 100 milioni di auto circolanti sulle strade europee».

«Si impone dunque di centrare l'attenzione sul protagonista, il suolo, appunto- scrive Di Simine -oltre che sulle sue apparenze paesaggistiche» così come sarebbe necessaria una nuova codifica che conferisca al suolo il riconoscimento di bene comune. In attesa che la limitazione dell'uso del suolo si risolva nelle necessarie «strategie che richiedono una sintesi e una regia afferente alle sedi europee e nazionali» anche le regioni possono avere un ampio spazio di manovra. In parte agito,  anche se l'assenza di una banca dati sufficientemente accurata che informi circa il dato attuale e retrospettivo del consumo di suolo, rende difficilmente misurabile l'entità di questa azione. 

Ma è abbastanza facile ricondurre l'entità del consumo di suolo di fronte al fatto che l'Italia è un paese in cui quasi la totalità del territorio è a rischio idrogeologico, come le frane recenti e continue ci dimostrano. E nonostante la questione degli interventi di mitigazione del  rischio idrogeologico e delle politiche di difesa del suolo sia una materia complessa e frammentate tra le diverse competenze, non vi è dubbio che le regioni possono assolvere un ruolo fondamentale. Che invece svolgono poco e male. 

Altro tema su cui le regioni possono operare un ruolo fondamentale è quello della tutela della risorsa idrica, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, attraverso la redazione, l'approvazione e l'applicazione del piano di tutela della acque, strumento di attuazione del testo unico ambientale e che in analogia con quanto prevede la direttiva quadro 2000/60, ha il compito di definire obiettivi di qualità e prevedere le misure necessarie per raggiungerli entro il 2015.

Ma non basta che le regioni predispongano questi piani,  «perché gli obiettivi di qualità e quantità siano rispettati è necessario che siano concepiti come strumenti innovativi» scrivono gli autori dell'analisi specifica al settore, Giorgio Zampetti, Giulio Conte e Stefano Ciafani.

Quello  che servirebbe sarebbero cioè non semplici programmi di opere di depurazione, ma piani strategici, articolati in azioni che coinvolgano diversi attori (pubblici e privati) puntando sull'integrazione di misure volte a ridurre i prelievi e  a ridurre i carichi inquinanti. Misure che sino ad ora appaiono sin troppo deboli e per niente applicative in modo innovativo ed efficace.

Così come appare risibile il tema che riguarda i canoni relativi al consumo delle risorse idriche con cui si potrebbe operare, ad esempio in agricoltura, un efficace sistema per scoraggiare lo spreco dell'acqua. I canoni per i diversi usi conoscono invece una profonda disparità e mentre nel corso degli anni quelli per usi civili sono aumentati, quelli per usi agricoli sono invece diminuiti. Per non parlare poi dei canoni di concessione irrisori pagati dalle società che imbottigliano le acque: in qualche caso addirittura stabiliti sulla base della superficie della concessione data, a prescindere dei prelievi.

Rimanendo sui canoni delle concessione non va meglio la questione sul tema delle attività estrattive dove in alcune regioni è addirittura una concessione del tutto gratuita, e comunque in media il canone vale appena il 4% del prezzo di vendita degli inerti. Entrate degli enti pubblici che risultano quindi ridicole in confronto del volume di affari del settore, che può avvalersi di circa 142 milioni di metri cubi di inerti , tra sabbia e ghiaia che ogni anno vengono prelevati attraverso l'attività di cava. Quando d'altra parte sono circa 40 milioni di tonnellate  i rifiuti inerti che devono cercare collocazione e scarsissima risulta l'attività di riciclaggio.

E veniamo ai rifiuti. Un capitolo in cui si evidenzia come sia fondamentale il ruolo delle regioni per la pianificazione, la programmazione e l'indirizzo delle politiche di gestione per ottenere l'obiettivo di rendere residuale lo smaltimento in discarica che ancora caratterizza gran parte del territorio nazionale. Ma per ottenere questo «servono le alternative impiantistiche» e «anche su questo la regione può fare molto facilitando con finanziamenti ad hoc- scrive Stefano Ciafani- la costruzione di impianti a servizio della raccolta differenziata e per il pre-trattamento dei rifiuti indifferenziati prima dello smaltimento in discarica». Il capitolo rimane però concentrato sui rifiuti urbani dimenticando che le regioni potrebbero invece svolgere anche un ruolo per la pianificazione dei rifiuti speciali (che sono tre volte tanti), anche se il trattamento e lo smaltimento rimangono comunque affidati a regole di mercato.

Last but non least il tema del sistema delle aree protette per la tutela del territorio e della biodiversità. Dove anzi in controtendenza rispetto agli altri settori oggetto di analisi, si evidenzia un ruolo positivo svolto da parte delle regioni, che hanno saputo in certi casi reagire alla «caduta di capacità e di volontà di intervento dello stato centrale» cui si è assistito nel corso degli ultimi dieci anni. Hanno rafforzato «le proprie iniziative nel campo della conservazione attraverso l'istituzione di nuove aree protette, l'ampliamento del numero dei siti della rete Natura 2000, l'individuazione delle reti ecologiche di scala regionale all'interno della pianificazione territoriale, nell'emanazione di leggi per la conservazione della biodiversità» scrive Antonio Nicoletti, autore del capitolo.

 E spesso hanno svolto anche «ruoli di supplenza, come è il caso di alcune regioni, rispetto alle carenze del ministero, soprattutto a favore dei parchi nazionali».

Anche il quadro che emerge dal settore specifico degli indicatori mostra un paese bloccato, con gravi problemi in tema di mobilità, legalità, rifiuti, e che nonostante sprazzi di eccellenze e buone pratiche sparse che pur si evidenziano non riescono a fare sistema e a dare una spinta positiva. 

Un paese in cui segnali positivi ci sono ma dove, purtroppo, «non sono le luci che danno il senso di quello che sta avvenendo. Sono purtroppo le ombre: il non fare, il fare meno di prima o degli altri, il fare inutile, lo spreco di risorse pubbliche, l'abbandono delle iniziative private, la perdita di funzioni di leadership, l'esser diventati non solo un second comer- secondo una precisa strategia- ma un latecomer (un ritardatario,  insomma).- scrive Duccio Bianchi nella sua introduzione-. E qualche volta manco arriviamo o prendiamo la strada sbagliata».

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