[06/04/2010] News
Che le guerre siano deprecabili attentati alla vita di persone inermi è lapalissiano. Che la qualità della vita dei cittadini superstiti, nei territori in guerra, peggiori in seguito all'impatto sull'ambiente generato dai conflitti è pure noto. Del resto le guerre distruggono le risorse del pianeta, le risorse comuni. Per chi è interessato ad approfondire i "numeri" dell'impatto ambientale dei conflitti rimandiamo ad un articolo del 2004 di Luca Mercalli disponibile sul sito di PeaceLink, in cui il metereologo spiega quanto petrolio ci è costata la guerra per il petrolio e quante emissioni di CO2 dannose all'atmosfera sono state emesse. Nella sola guerra del Kosovo la Nato consumò l'equivalente del 7% della produzione mondiale annuale di petrolio, racconta Alberto Negri in un recente articolo (24 febbraio) apparso sul Sole 24 Ore.com (Le guerre che inquinano) in cui si parla di uranio, di sindrome del golfo, di soldati ammalati. Risorse del pianeta quindi messe a rischio dalle guerre. Ma c'è di più.
Sono le stesse risorse la principale causa di conflitti come spiegano i giornalisti di PeaceReporter (il quotidiano online che tratta temi internazionali), nel volume che segnaliamo. Attraverso il racconto di alcuni "casi-modello", nel libro viene evidenziato come da sempre la corsa alla ricchezza, all'appropriamento delle risorse sia la vera causa delle guerre che ci sono nel mondo, che in realtà sono un'unica grande guerra che l'uomo ha dichiarato alla Terra. «In 3358 anni (dal 1496 avanti Cristo al 1861) ci sono stati 3130 anni di guerra e 277 di pace, ovvero tredici anni di guerra per ogni anno di pace. E il motivo è sempre stato lo stesso. La conquista, la predazione di ricchezze altrui» sottolinea Maso Notaraianni direttore di PeaceReporter. In parallelo non va dimenticato che c'è un mercato che si deve sostenere, un mercato che non conosce crisi, che anzi è servito spesso per uscire da periodi economici difficili: purtroppo non è la green economy ma il mercato delle armi.
«Nell'anno fiscale 2008, dice il Ministero della Difesa statunitense, il giro d'affari è stato di 32 miliardi di dollari contro i 12 mila del 2005». Il territorio afgano è disseminato di mine su cui quotidianamente saltano persone (adulti e spesso bambini) che in quel paese devono continuare a lavorare, ad arrangiarsi per mangiare, a vivere. Le risorse in un Paese come l'Afghanistan sono rappresentate dagli smeraldi della valle del Panjshir serviti per anni per finanziare guerre ed armare eserciti, dalle coltivazioni di papaveri e cannabis per produrre oppio e hashish e adesso anche dal legname. Usato prima localmente come fonte di riscaldamento nei rigidi inverni afgani, ora è diventato un prodotto per floridi commerci, «ed è monopolio dei signori della legna che di solito sono anche signori della guerra». Il legname "via asino" arriva in Pakistan ricomprato dalle imprese straniere che poi fanno affari. E le foreste stanno scomparendo.
Intanto Kabul (e suoi sobborghi) stracolma ed inquinata è diventata un'immensa pattumiera con rifiuti bellici di ogni tipo lasciati da battaglie ormai dimenticate, che si sommano a rifiuti solidi urbani lasciati dagli eserciti occidentali che comprano i prodotti esclusivamente all'estero (Pakistan, Emirati Arabi): la guerra toglie risorse ed aggiunge solo problemi perché nel Paese, come è intuibile, la gestione dei rifiuti con il ciclo integrato è lontana dal realizzarsi. Guerre dichiarate che ogni tanto passano nei telegiornali come quelle afgane e guerre meno note come quella che si sta combattendo da decenni nel Delta del Niger per il petrolio. Blood Oil, petrolio insanguinato in Nigeria come diamanti in Sierra Leone.
Il bonny light nigeriano è un prodotto di qualità, leggero contenente un basso tasso di biossido di carbonio, quindi molto ambito sui mercati statunitensi ed europei dove le norme ambientali impongono l'utilizzo di carburanti sempre meno inquinanti. La Nigeria, tutta, non solo il Delta del Niger, con i soldi accumulati con il petrolio dovrebbe essere un paese ricco (guadagna a settimana circa 1,5 miliardi di dollari) e invece nell'Indice di sviluppo umano dell'Onu risulta 154esima perché i benefici sono a favore solo dell'1% della popolazione. «Non è un caso che, a livello internazionale, la Nigeria sia diventata lo stereotipo di tutto quello che può causare una gestione petrolifera fallimentare: corruzione endemica, mancanza di democrazia, inquinamento, criminalità e, negli ultimi anni, anche rivolte armate» sottolineano gli autori.
Le distorsioni causate dalla scoperta dell'Oro nero in paesi non democraticamente e socialmente attrezzati sono analizzate nel volume, ma non vi è dubbio che il petrolio è stato il mezzo per mantenere a lungo alla guida della Nigeria, regimi militari prima e pseudo-democratici poi, che hanno governato con la repressione. Con il petrolio si è poi voluto fare i massimi profitti a scapito dell'ambiente: oleodotti non interrati, strutture vetuste, manutenzione inesistente sono la causa di sversamenti di greggio nelle acque e nel terreno.
E poi c'è il fenomeno del gas flaring, «ossia la combustione del gas naturale, che al momento dell'estrazione del greggio, fuoriesce insieme al petrolio. La combustione provoca il rilascio nell'atmosfera di milioni di tonnellate di anidride carbonica e gas serra...». I gruppi armati del Mend (Movement for the emancipation of the Niger Delta) chiedono diritti per le comunità locali, cioè che parte dei profitti fatti con il greggio rimangano sul territorio. Sabotaggi, rapimenti, operazioni di bunkering (foratura degli oleodotti per estrarre il greggio per rivenderlo al mercato nero), sono i mezzi con cui i guerriglieri "siedono al tavolo delle trattative", ma non è sempre un'operazione alla Robin Hood: alcuni gruppi guerriglieri, come spiegano gli autori, strizzano l'occhio a politici corrotti e mafiosi locali volendo mantenere in definitiva lo status quo.
I cronisti di Peacereporter, spostandosi da continente a continente raccolgono, tramite esperienza diretta o attraverso interviste, dati su alcune guerre per le risorse, veri saccheggi per le popolazioni locali effettuati per garantire gli elevati tenori di vita nel Nord del mondo, inducendo il lettore attento a ripensare alle conseguenze di certi comportamenti tenuti nei luoghi lontani dai conflitti. Il famoso battito di ali della farfalla è una costante nei racconti riportati dai territori dei vari paesi.
L'America latina in questo senso ha pagato un duro prezzo: ormai da secoli. Attraverso le colonizzazioni commerciali hanno subito il mercato globale il Venezuela, la Colombia, l'Argentina, il Perù ed anche la Bolivia, la maglia nera nelle economie latinoamericane. Il futuro però potrebbe cambiare per questo Paese guidato da Evo Morales, il presidente indio. Pare che la Bolivia ospiti sul suo territorio il 50% della produzione mondiale di litio, il metallo presente nelle batterie dei telefonini, nei computer e utilizzabile in batterie speciali nelle auto elettriche ed ibride: questo metallo potrebbe diventare l'alternativa alla benzina. Il litio che si trova soprattutto negli altipiani salati Boliviani (ma è presente anche in altri paesi sudamericani ed anche in Cina) potrebbe essere il mezzo per il riscatto economico della Bolivia.
Il tessuto sociale presente nel Paese si è dimostrato attrezzato per far valere le ragioni della popolazione come è successo durante la "Guerra dell'acqua" o in quella del Gas anche se è stato pagato un duro prezzo con il sangue. Ora il litio boliviano desta notevole interesse: da Obama ai russi di Gazprom, dalla Cina al Giappone tutti sono in coda per stringere accordi con il Paese sud americano. Il popolo ha piena fiducia nel suo presidente e non dovrebbero ripetersi i saccheggi del passato.
Ma "l'operazione litio" quali impatti produrrà sull'ambiente? Dal Ministerio de Minerìa si avanzano dubbi: più auto elettriche diminuiranno l'emissione di CO2 in atmosfera, ma gli impianti di produzione emetteranno enormi quantitativi di anidride solforosa e si brucerà un'enorme quantità di combustibili fossili lungo la filiera. Mentre le grandi associazioni ambientaliste avanzano perplessità sull'operazione "auto pulita" a causa degli impatti delle centrali elettriche alimentate a carbone e dei limitati effetti positivi sulla produzione di CO2 del potenziale rinnovo del parco auto, continuano gli studi e le ricerche per capire quanto litio è presente in Bolivia. Per ora pare che ci sia piena consapevolezza che la risorsa litio debba essere utilizzata attraverso criteri di sostenibilità e con ricadute economiche per il paese: la via della nazionalizzazione delle risorse naturali di Morales pare abbia dato qualche frutto.
Tra le contese per accaparrarsi le risorse naturali del pianeta, non poteva mancare quella per l'acqua. Molti sono i conflitti su questo tema in giro per il mondo, ma il più noto è quello israelo-palestinese che più volte abbiamo citato anche su greenreport e che i cronisti di Paecereporter raccontano con dovizia di particolari nei suoi sviluppi lunghi decine di anni. L'equa gestione delle risorse idriche in Terra Santa a detta di molti osservatoti non è la conseguenza di un accordo di pace tra israeliani e palestinesi ma la base di un'intesa per ottenere in quell'area l'obiettivo dei "due popoli in due stati" con eguali diritti e doveri.
«Quando avrete abbattuto l'ultimo albero, quando avrete pescato l'ultimo pesce,quando avrete inquinato l'ultimo fiume, allora vi accorgerete che non si può mangiare il denaro»: le parole di Toro Seduto che introducono il volume sono purtroppo quanto mai veritiere ed attuali.