[07/04/2010] News

Economia, regole e democrazia. Se la Cina diventa un esempio...

LIVORNO. Il titolo dell'intervista che pubblica oggi La Repubblica a Guido Rossi (Rossi: più regole al capitalismo o si rischia la fine della democrazia) è decisamente fuorviante, anche se sotto l'intervistato spiega subito: «Va frenato il potere delle banche. La Cina meglio di Usa e Europa». Il giurista, ex presidente di Consob e di Telecom, parte da un assunto certo: la crisi dell'economia (che è anche crisi di un modello senza contrappesi e "avversari" credibili, aggiungiamo noi) è frutto di una "dittatura" finanziaria collassata e «viviamo ancora nell´ignoranza delle ragioni profonde della crisi e delle misure necessarie per far ripartire l´economia. Almeno però in America si è sviluppato un dibattito critico e speriamo costruttivo sul grande tema del capitalismo grazie a intellettuali come Richard Posner che dopo "Il fallimento del capitalismo" ora ha scritto "La crisi della democrazia capitalista", sostenendo cioè che la crisi economica sta diventando una crisi della democrazia».

E' sempre più evidente che l'assunto indiscutibile fino a pochi anni fa (esattamente fino al crollo del comunismo sovietico ed al trionfo dell'iperliberismo conservatore): democrazia uguale libero mercato, è diventato un'evidente bugia anche per liberali-liberisti come  Rossi che oggi arriva, insieme ad altri entusiastici estimatori che fino a poco tempo fa ci davano lezioni di democrazia, a presentare il modello cinese come unico vero regolatore di successo del mercato. Sembra che alle schiere dei poco informati e molto fanatici maoisti occidentali con l'eskimo degli anni 60, si siano sostituite le falangi in giacca e cravatta di industriali ed economisti che sognano il libero mercato sotto l'ala protettrice dalla piume di ferro di un dragone cinese, o di una nuova aquila imperiale occidentale, che ci liberi dai fastidiosi orpelli del liberalismo classico e dai cascami del vecchiume democratico e sinistrorso.

Sembra una delle situazioni da manuale descritte dal libro "Shock economy" di Naomi Klein, ma stavolta diventate shock globale: alla crisi provocata dall'ingordigia del capitalismo finanziario (sollecitata e magnificata e magari praticata fino a pochi mesi fa dagli stessi che oggi la disprezzano) si risponde con una "sospensione" della democrazia; al necessario governo democratico dell'economia, alla indifferibile condivisione della ricchezza e delle risorse mondiali (che vuol dire maggiore informazione, partecipazione, rispetto degli altri), si contrappone un "virtuoso" modello cinese che spazza via la complessità in una crescita di ferro e fuoco, incurante di un disastro ambientale e sociale ben nascosto e ben ignorato dagli entusiasti ammiratori occidentali.

Davanti alla crisi che non cessa e muta geneticamente si propone una ricetta indigeribile, per uscire dalla dittatura brutale del mercato esercitata nelle ovattate sale dei consigli di amministrazione delle grandi finanziarie e multinazionali, si indica il mercato sostenuto dalla dittatura. Alla fine i protagonisti ed i beneficiari, in Cina come in Occidente, resteranno gli stessi e sempre gli stessi saranno coloro che dovranno sopportare il peso di una ingiustizia (magari però un po' meglio distribuita) che oltre che economica diventerà anche politica. Non è che si tratti di una novità, il film di questi strani innamoramenti  lo abbiamo già visto negli Emirati del golfo, indicatici come modello di efficienza e ricchezza proprio grazie alla mancanza dei fastidiosi lacci e laccioli democratici che impedivano alle imprese occidentali di dispiegare tutte le loro potenzialità... Ora, le falangi di imprenditori richiamati dalla democrazia "zero" degli emirati e dalle opportunità di una manodopera schiavizzata, e senza diritti, ritornano precipitosamente a casa dalle torri di acciaio e cemento e dalle isole inventate che affondano nella stessa crisi prodotta da quel modello artificiale.

Ora gli esperti economici come Rossi citano a scandalizzati i grandi utili fatti dalle banche e quelli che sono ritornate a fare dopo essere state "ripasciute" da governi che temevano un crollo del sistema iniquo che avevano creato con politiche inique e presentate come miracolose, si tira fuori "Free fall" del premio Nobel Stiglitz che per lunghi anni è stato sbeffeggiato dal neoconservatorismo imperante e ignorato da una sinistra occidentale che non ha capito la crisi, ed ha semplicemente convertito i suoi antichi valori in un'arrendevolezza suicida al pensiero unico che continua ad essere pensato da altri.

Il paradosso è che la risposta a questo disordine, a questa macelleria sociale planetaria, a questo missione perfettamente compiuta dagli "spiriti animali del capitalismo", aizzati dagli stessi che oggi chiedono gabbie e catene per imprigionarli e ci propongono il ritorno ad antiche virtù, la si cerca tra le sventolanti bandiere rosse di Pechino, all'interno dell'impenetrabile strategia nazionalista di un Partito comunista che è uscito dalla crisalide del maoismo per vestire i panni della globalizzazione capitalista e del socialismo di mercato. Cercare la necessaria trasparenza e correttezza e democratizzazione dei mercati in Cina è un po' come andare alla ricerca dell'unicorno in Antartide.

A quanto pare, invece, la sfida è tra le grandi banche d'affari e uno Stato che controlla e dirige, che non fa scoppiare le bolle, che non ha bisogno dei Global Legal Standard promessi e non approvati dai nostri e dagli altri governi occidentali, senza «bilanci pubblici appesantiti dalle perdite assorbite dai privati» perché il Partito e la sua cricca sono loro stessi il bilancio ed i fondi sovrani in occidente e l'invasione dei mercati "marginali" è la loro politica economica planetaria.

In Cina le bolle non scoppiano perché i cordoni della borsa e le briglie della politica sono nelle stesse saponose mani autoritarie che le gonfiano e le sgonfiano, perché possono essere nascoste in piani quinquennali scritti dalle stesse mani e controllati dagli stessi occhi, perché i costi di una crescita forzata sono "spalmati" da un'ingegneria sociale e politica che se ne frega delle regole della finanza, ma le fa e le muta a proprio piacimento. E' abbastanza preoccupante che questa nostra stanca democrazia, nonostante tutto quel che sappiamo del passato e del presente del regime cinese, sia disposta a perdonare come "difetti" o "peccatucci" inevitabili le violazione della democrazia del governo di Pechino in nome delle "regole". Come non essere d'accordo con Rossi quando dice: «Ecco perché è così necessario implementare delle regole nella finanza che non si possano aggirare e che portino maggiore trasparenza pagando il prezzo, forse, di minori profitti. È vitale per la tenuta della democrazia». Ma portare come esempio virtuoso chi ha sostituito la democrazia con le "regole" del regime, non ci sembra davvero un esempio azzeccato. Non a caso il turbo-capitalismo-comunista cinese piace tanto al capitalismo "tribale" italiano che ha sfruttato le privatizzazioni per realizzare nuovi monopoli e che vive da anni in simbiosi con lo Stato, la politica e la rendita senza pagare pegno né politico né economico. «Credo che i cinesi abbiano capito più di altri il messaggio di Keynes - chiude Rossi - nelle fasi di crisi è meglio dare meno denaro ai ricchi e di più ai poveri, perché questi hanno una maggiore propensione al consumo e possono ricreare la domanda se si vuole ottenere la piena occupazione».

Che in Cina il baratro tra la nuova elite dei ricchi e la moltitudine dei poveri sia diventato una voragine che comincia a far paura anche all'onnipotente Partito non sembra sfiorare la nostra edulcorata immagine della "dinamica" società cinese e che i "poveri" occidentali o orientali, quelli che una volta si chiamavano proletariato, siano destinati tutt'al più a rivivificare keynesianamente l'economia con un ruolo predestinato di consumatori sembra una cosa che non riguardi più una sinistra senza un modello alternativo di società o semplicemente di diversa narrazione di quella che abbiamo. Sembra che qualcuno speri che la crisi del capitalismo che sta trasformandosi in crisi della democrazia, come già ora e qui in Italia, possa essere risolta dalla miracolosa crescita dei "compagni" cinesi che è la negazione delle speranze di democrazia, progresso e liberazione dell'uomo di quel che fu la sinistra italiana.

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