[12/04/2010] News
Negli anni del miracolo economico l'Italia raggiunse una dotazione di primo piano in termini di infrastrutture stradali, «anticipando in parte la motorizzazione di massa». Ma poi, «a partire dall'inizio degli anni '80, questa capacità si esaurisce progressivamente - e non certo per un problema di saturazione - fino a ribaltare la posizione di relativo vantaggio». Ed eccoci alla situazione odierna, che vede il Belpaese caratterizzato da «una dotazione fisica di infrastrutture relativamente buona per i trasporti marittimi e non molto discosta dalla media per quelli ferroviari. Il confronto risulta invece meno favorevole al nostro paese se si considerano i trasporti stradali e soprattutto quelli aerei, settore nel quale sembrano emergere le carenze più significative».
Ma perché è avvenuto questo rallentamento in termini quantitativi di dotazione infrastrutturale? Secondo gli autori di "E' possibile realizzare le infrastrutture in Italia?" i motivi vanno ricercati in primo luogo, dal punto di vista politico, nell'ancora incompiuta transizione dal centralismo al decentramento amministrativo iniziata con la riforma costituzionale del 2001 e le modifiche all'articolo 117 della Carta. Dal punto di vista sociale, invece, il problema visto come più incidente è il forte radicamento della sindrome Nimby dato, tra le altre cose, dalla pressoché totale assenza di elementi di democrazia partecipativa nell'ordinamento nazionale, ad esclusione di alcune normative regionali a carattere sperimentale, come la L.r. 69/07 della regione Toscana. Infine, riguardo all'aspetto più strettamente economico-finanziario, il principale agente del "rallentamento italiano" in termini di infrastrutture di mobilità fisica è individuato nel «contenimento dei finanziamenti pubblici» che è avvenuto in questi anni e che non è stato «sostituito da un quadro regolatorio capace di attrarre investimenti privati e di assicurare la realizzazione delle opere».
In sostanza, scrivono gli autori, «è come se al vecchio modello di governo dell'economia unitario ed interventista non se ne sia ancora sostituito uno in grado di affrontare le sfide della sussidiarietà nella nuova arena pubblica», e ciò ha avuto effetto «sia nel momento decisionale (..) sia nell'offerta di investimenti infrastrutturali». Ciò che dall'analisi emerge come tuttora assente, nella politica italiana, è quindi «un disegno innovatore (che sia) chiaro e coerente anche con l'insieme delle trasformazioni subite dalla distribuzione dei poteri e (con) i vincoli della finanza pubblica».
Il lavoro coordinato da Alfredo Macchiati (economista e dirigente Fs) e Giulio Napolitano (docente di Istituzioni di Diritto pubblico presso l'università di Roma 3) riunisce vari saggi prodotti da diversi analisti economici: il risultato d'insieme è quindi un tentativo di analizzare nel dettaglio le problematiche sopra citate e di proporre delle ipotesi di contrasto al «backlash infrastrutturale» che secondo gli autori caratterizzerebbe la penisola, anche se in realtà poi il presupposto di partenza di questa affermazione è invece proprio la difficoltà di produrre indicazioni oggettive sulla reale dotazione di infrastrutture di mobilità fisica.
I dati Eurostat disponibili danno infatti indicazioni molto diverse (soprattutto riguardo al giudizio sulla situazione dell'Italia, un «paese densamente popolato» in cui «gli indici di dotazione fisica aumentano sensibilmente nel passaggio dalla popolazione alla superficie come criterio di normalizzazione dei dati») se vengono riferiti alla ricchezza prodotta (cioè al Pil), alla superficie o alla popolazione. E di conseguenza viene proposta l'adozione di una nuova metodologia che riferisce la dotazione infrastrutturale ai tempi di trasporto effettivi e non ai km di superficie di strade, ferrovie, porti e aeroporti.
Posti sul tavolo i numeri (riguardo ai quali mettiamo da parte ogni considerazione riguardo al fatto che, oltre alla condivisibile proposta di superamento delle analisi relative alla sola dotazione in km, andrebbe affrontata - nella stesura di "graduatorie transnazionali" per le infrastrutture fisiche di trasporto - anche la questione della definizione di indicatori della qualità infrastrutturale delle nazioni, qualità che non può essere legata né alla sola densità in km ma nemmeno ai tempi di trasporto, e che va integrata con elementi di analisi paesaggistica, ambientale e sociale, oltre che di sostenibilità economica delle opere in questione), i vari autori del saggio analizzano, alla luce di essi, due ambiti di dibattito politico considerati come i principali fattori incidenti sulla situazione attuale, e cioè lo stato della democrazia partecipativa in Italia al confronto con le altre realtà europee (Francia e Inghilterra in primis) e con gli Usa, e il percorso che la politica infrastrutturale italiana ha seguito nei 9 anni fin qui passati dall'approvazione della cosiddetta "Legge obiettivo" (443/2001). Inoltre, viene analizzato dettagliatamente anche lo stato delle svariate politiche di partnerariato pubblico-privato, evidenziando tra le altre cose il dato relativo alla tuttora limitata incidenza di questa pratica nell'attività di governo praticata in Italia, dove tra le altre cose «le operazioni di project financing non superano il 20%, mentre vi sono paesi come la Spagna dove, almeno in alcuni settori come porti e aeroporti, il contributo pubblico è residuale».
Il testo che proponiamo oggi, quindi, è per certi versi un documento di analisi e proposta per il rilancio dell'infrastrutturazione italiana, dall'altra parte un utile "vademecum" sulle politiche infrastrutturali, molto dettagliato soprattutto in termini di aggiornamento del percorso legislativo che caratterizza il settore.
Particolarmente innovativa è l'ampia parte dedicata allo stato delle pratiche partecipative per la localizzazione di impianti indesiderati ("noxious facilities", che comprendono in primo luogo «gli inceneritori, i termovalorizzatori, le carceri, le centrali nucleari, i centri di accoglienza per persone con malattie infettive, le discariche, le centrali a biomassa») dove il presupposto di base verte intorno al superamento di un «pregiudizio di fondo, quello per cui la partecipazione pubblica sia più una pericolosa fonte di complicazione, come tale da limitare o se possibile evitare, piuttosto che una risorsa da valorizzare per prevenire e risolvere il potenziale conflitto tra amministratori e cittadini». Pur senza vedere (anche alla luce sia delle esperienze estere positive, sia di quelle negative riportate) la partecipazione come la panacea per tutti i problemi, ma anzi evidenziando anche le criticità insite nei sistemi democratici a maggiore impostazione partecipativa, gli autori vedono nel «deficit partecipativo» italiano una delle principali causanti del forte radicamento del Nimby e in generale dell'antipolitica, e auspicano quindi un'evoluzione dell'ordinamento - e quindi della società - italiani nella stessa direzione intrapresa dalle più influenti democrazie mondiali.
Appare assente invece, nelle pagine del libro, una trattazione degli aspetti relativi al perseguimento della sostenibilità che non si fermi a cenni analitici o alle constatazioni sulla linea di intervento che l'Unione europea ha adottato (soprattutto dal Trattato di Maastricht del 1992 in poi) in direzione del sostegno alla mobilità sostenibile. Sono pressoché assenti, ad esempio, considerazioni sull'equilibrio che deve sussistere tra la branca fondamentale di intervento pubblico in economia rappresentato dall'infrastrutturazione e le esigenze di conservazione del paesaggio e dell'attrattività dei territori per i flussi turistici, elemento questo che deve necessariamente avere spazio nell'analisi della dotazione italiana di infrastrutture di trasporto fisico, e che invece, anche in "E' possibile realizzare le infrastrutture in Italia" così come in molti altri testi di settore, viene trattato solo in modo marginale.
E mancano inoltre, anche se il testo è esplicitamente dedicato all'analisi delle sole infrastrutture di trasporto fisico, considerazioni sul sostegno all'infrastrutturazione destinata al trasporto immateriale (reti telematiche, banda larga, digital divide economico e civile), un ambito che andrebbe necessariamente affrontato in modo organico a quello delle infrastrutture fisiche, e che invece viene, nella comune letteratura, visto come elemento a sé stante e non riceve nemmeno un cenno nel testo citato.
In generale, l'utile e interessante testo che presentiamo oggi è però caratterizzato dallo stesso gap che, ai nostri occhi, investe gran parte della saggistica socio-economica oggi disponibile in letteratura: e cioè il fatto che ciò che viene trattato è il modo in cui rilanciare l'economia della crescita "senza se e senza ma", sia pure con proposte di correttivi in direzione di una più ampia sostenibilità sociale (la partecipazione) ed economico-finanziaria (le proposte per una migliore implementazione delle politiche di partnerariato e in generale per una più evoluta applicazione della Legge-obiettivo). Ma di come rendere paralleli, agendo anche e soprattutto nel comparto infrastrutturale, il percorso del benessere economico (e quindi della crescita) e quello del perseguimento di questo benessere attraverso i cardini della sostenibilità ambientale (e quindi di una riconversione ecologica dell'economia), non si trova traccia - o quasi - anche nelle pagine del saggio oggi presentato.