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[03/05/2010] News
Molto efficace, nell'edizione originale di State of the world, l'immagine di copertina per stigmatizzare i concetti di fondo dell'edizione 2010 del rapporto del Worldwatch Institute: una gigantesca onda di pezzetti di plastica che si abbatte sul pianeta. Morale: il consumismo potrebbe spazzarci via come nel dicembre 2004 lo tsunami ha travolto i villaggi delle regioni costiere dell'oceano indiano.
Il focus del rapporto 2010 è infatti la società dei consumi che viene descritta in tutta la sua opulenza e con tutti i suoi disequilibri e per la quale viene indicata una sola via alternativa per evitare il collasso del pianeta: la trasformazione della cultura che la sostiene.
Non basta più, secondo il Worldwatch Institute, perseguire l'obiettivo di mettere in pratica gli schemi di uno sviluppo sostenibile, e quindi pensare agli strumenti per ridurre i consumi: che siano di materie prime come di energia, quello che serve è un radicale cambiamento della cultura dominante che nel consumismo ha il suo totem.
Il motivo della necessità di cambiare paradigma ce lo danno i numeri che caratterizzano questo fenomeno: negli ultimi cinque anni, i consumi planetari sono aumentati del 28% rispetto ai 23,9 mila miliardi di dollari spesi nel 1996 e sono sei volte superiori rispetto ai 4,9 mila miliardi di dollari (al valore del 2008) spesi nel 1960. Tra il 1960 e il 2006 la spesa pro capite in beni di consumo è quasi triplicata.
«Tuttavia, anziché passare di moda, il modello di crescita perpetua si sta ora diffondendo a livello planetario - osserva il presidente del Worldwatch Norvegia, Oisten Dahle -. Dal 1958 al 2008 il numero di auto è passato da 86 milioni a 620. I passeggeri aerei hanno avuto un'impennata passando dai 68 milioni nel 1995 ai 2 miliardi nel 2005. Gli effetti ecologici di questi trend sono catastrofici».
Nel solo 2008, a livello planetario, sono stati acquistati 68 milioni di veicoli, 85 milioni di frigoriferi, 297 milioni di computer e 1,2 miliardi di telefoni cellulari. Un aumento cui corrisponde giocoforza un maggiore prelievo di risorse primarie: miniere, giacimenti di idrocarburi, consumo di suolo, tutto avviato ad una trasformazione che comporta nella fase di produzione e poi quella di fine vita una enorme produzione di rifiuti ed esorbitanti consumi di energia. Tra il 1950 e il 2005, la produzione di metalli si è moltiplicata per 6, il consumo di petrolio per 8, quello di gas naturale per 14.
«La perdita media annua 7 milioni di ettari di foreste, l'erosione del suolo, la produzione annuale di 100 milioni di tonnellate di rifiuti tossici, le pratiche di lavoro illecite mosse da desiderio di produrre maggiori quantità di beni di consumo a costi inferiori, l'obesità, l'erosione del tempo disponibile. La lista- sottolinea Erik Assadourian, curatore dell'edizione 2010 del rapporto - potrebbe andare avanti all'infinito» e si somma a quella che è già la minaccia incombente dei cambiamenti climatici, «che è solo uno dei sintomi dei livelli eccessivi di consumo».
E tutto questo avviene per soddisfare le esigenze di una parte, tutto sommato, limitata del pianeta: se l'ondata dei consumi avesse la stessa portata su tutti i luoghi della terra il suo livello di sopportazione non andrebbe, infatti, tanto lontano.
Oggi l'europeo medio ha bisogno di 43 chili di risorse al giorno, un americano di 88. Consumi medi, appunto, dal momento che è il 16% della popolazione a consumare il 78% delle risorse; ma con le economie emergenti di paesi come Cina, India, Messico e Brasile che si stanno adeguando a questo trend anziché intraprendere una strada diversa. Se i 7 miliardi di umanità che popolano il pianeta vivessero con la stessa intensità, ne servirebbe più di uno per poter fornire le risorse necessarie a soddisfare questa voracità. O comunque agli attuali ritmi la Terra potrebbe sostenere solo 1,4 miliardi di persone, vale a dire un quinto dell'attuale popolazione mondiale.
La via d'uscita, l'unica possibile secondo il Worldwatch Institute, è allora non tanto quella di ripensare ai modelli energetici o di produzione. Riusciremo- dicono all'istituto americano- a trarre dalle fonti rinnovabili tutta l'energia che siamo abituati a ricavare da quelle fossili solo se in ogni secondo dei prossimi 25 anni riusciremo a costruire 200 metri quadrati di pannelli solari fotovoltaici, 100 metri quadrati di solare termico e 24 turbine eoliche da 3 megawatt all'ora.
Quindi quello che serve è una rivoluzione culturale che porti ad un modello di vita sobria.
E il rapporto è denso di interventi che trovano anche una motivazione etica a questo, così come di testimonianze di casi che possono aiutare ad andare in quella direzione: la stessa prefazione di Muhammad Yunus, l'economista premio Nobel per la pace nel 2006 per aver creato un circuito bancario di microcredito capace per dare una risposta concreta per combattere la povertà, ne è un esempio.
Impegnati in questa ricerca per trasformare la cultura del consumismo e a portarne testimonianze nel rapporto, sono molti ricercatori e professionisti provenienti dalle più importanti istituzioni globali, dal settore dell'istruzione a quello dei media, dalle imprese private agli enti pubblici, dalle espressioni di tradizioni locali ai movimenti sociali e religiosi.
Una trasformazione che come ricorda il presidente del Worldwatch Institute, Christopher Flavin, è «qualcosa di più fondamentale rispetto all'adozione di nuove tecnologie o di nuove politiche governative, spesso considerate come forze chiave di un cambiamento verso società sostenibili - e che -a livello globale, rimodellerebbe il modo di concepire e di agire dell'uomo alla radice».
Un processo che «costituisce la sfida più significativa ed importante dell'intera umanità - per la quale - saranno necessari decenni d'impegno in cui i pionieri culturali - coloro che riescono ad avere una visione distaccata e critica della realtà culturale - lavoreranno instancabilmente per reindirizzare le istituzioni chiave della formazione culturale: istruzione, economia, governo, media e anche i movimenti sociali e le tradizioni umane consolidate».
Non vi è dubbio che le religioni così come le tradizioni e i rituali delle varie comunità o le buone pratiche da moltiplicare sino al cambiamento individuale costituito dalle azioni dei pionieri culturali siano una leva fondamentale e un valido sostegno per avviare qualsiasi riforma culturale che abbia una portata e una stabilità. Quello che sembra un po' utopistico persino eccessivamente ingenuo è il fatto di pensare che tutto ciò possa portare in maniera spontanea ad un cambiamento della cultura dominante che- come lo stesso Erik Assadourian, trova le sue origini addirittura alla fine del 1600, quando i cambiamenti sociali che avvennero in Europa, gettarono le basi per far attecchire quello che sarebbe diventato poi il male del nostro secolo.
Tanto che - come emerge in maniera sempre più circostanziata - non sta più nemmeno in piedi l'equazione che maggiore ricchezza e quindi maggiori consumi corrispondono ad un effettivo maggiore benessere, o almeno non in termini di benessere interiore.
Ma pare difficile pensare che un processo di tale portata quale il declino della cultura del consumismo e la rinascita di una cultura volta alla sostenibilità ecologica e sociale del pianeta possa avvenire solo grazie all'azione dal basso, o che addirittura venga considerata più fondamentale rispetto a politiche governative, seppure questa rappresenti, senza dubbio,un brodo colturale essenziale.
Un processo che necessita però di una riconversione radicale dell'attuale sistema, in cui la politica è sottoposta all'influenza economica e questa a sua volta dominata dalla finanza. Un sistema che nonostante sia stato la causa di una crisi economica planetaria che ancora sconvolge le economie e la tenuta sociale di molte nazioni del pianeta pare non mostrare grandi vacillamenti e anzi rimane ancorata ben salda nell'entourage politico, economico e culturale dominante.
Si è parlato molto della necessità di una governance globale per reggere alla sfida della crisi ecologica dominata dal tema dei cambiamenti climatici e degli effetti nefasti che questa avrebbe sortito sulle economie del pianeta oltreché del futuro dei suoi abitanti. E una governance con regole globali è stata poi invocata dai più per uscire dalla crisi economico-finanziaria e per fare in modo che non si verifichino in futuro crisi di analoga portata. Ma in nessuno dei due casi si è giunti poi a mettere le basi concrete perché questa governance avesse qualche chance di divenire realtà.
Per queste ragioni l'entusiasmo che esprime Yunus nella prefazione del rapporto State of the world, ovvero che i numerosi articoli di questo volume dimostrino come una riforma culturale volta a superare il consumismo sia già in atto, appare difficile da condividere, per quanto sia invece assolutamente condivisibile la necessità che questa trasformazione culturale avvenga. Perché come scrive giustamente Yunus «una cultura che non consente alle persone di crescere è una cultura morta. E le culture morte dovrebbero stare nei musei, non in una società civile».