[06/08/2009] News

Dall'Innse al resto d'Italia: viaggio con poche speranze

LIVORNO. Innse, come tante altre aziende nel Nord, nel centro, meno nel Sud per la carenza di un sistema industriale diffuso, sono l'emblema di un'epoca che giunta al traguardo stenta a trovare la strada del futuro. Di Innse se ne parla per la modalità con cui viene portata avanti la protesta degli operai, che ben sanno che perdere quel lavoro non equivarrà tanto facilmente a trovarne un altro, ma sono tanti i casi simili che si possono trovare in giro sul territorio.

Colpa della crisi economica che ha falcidiato l'occupazione di questo e di altri continenti, che ha messo in ginocchio economie stabili e ha fatto vacillare quelle emergenti. Ma se è vero che la recessione globale ha fatto da mannaia, almeno per quanto riguarda il nostro paese, imputargli la responsabilità da sola del crollo di tante piccole e medie aziende equivale a trovare un capro espiatorio ad una situazione che mostrava da tempo le corde e, soprattutto, non è funzionale a trovarne una via d'uscita.

L'Italia ha una sua particolarità in fatto di industria, caratterizzata dall'essere costituita più da una miriade di imprese di piccole e medie dimensioni che da grandi gruppi, intraconnesse tra di loro e articolate semmai a supporto delle grandi. Un mosaico in cui ogni tessera ha il suo valore in sé , per il portato sociale e per la specificità che esprime anche in termini di creatività, e come parte di un tutto assai più complesso e in cui la sofferenza di ognuna di queste tessere può ripercuotersi in maniera significativa su tutto il resto. Questo vale per la meccanica, per il tessile, come vale del resto per la chimica, esempio ne è la crisi del petrolchimico di Marghera che dimostra come l'effetto domino può avere conseguenze ben più vaste della crisi di un singolo tassello.

Ma l'Italia è anche un paese in ritardo, almeno rispetto al resto d'Europa , come evidenziato da molte relazioni , non ultima quella annuale fatta a maggio dal governatore della Banca d'Italia Draghi, che rileva una struttura economica già debole su cui pesanti sono gli effetti dell'attuale crisi.«Negli ultimi 20 anni la nostra è stata una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte» segnalava Draghi invitando tutti, dalla politica alla finanza all'impresa nessuno escluso, a guardare oltre l'ostacolo: «Dobbiamo essere capaci di levare la testa dalle angustie di oggi per vedere più lontano. Una risposta incisiva all'emergenza è possibile solo se accompagnata da comportamenti e da riforme che rialzino la crescita dal basso sentiero degli ultimi decenni».

E questo ritardo dell'Italia è evidenziato anche da molte ricerche di settore, come quella recentemente pubblicata dal Cnr, sugli investimenti in ricerca verso nuove tecnologie, che ci pone a livello europeo nel gruppo degli inseguitori da cui non vi è segnale della tendenza a muoversi nemmeno come opportunità di rilancio per prepararci a riemergere dalla crisi.

L'Italia è inoltre un paese in cui da tempo langue una seria politica industriale che partendo dall'analisi di quello che è dato imposta strategie e destina risorse per impostare un progetto per il futuro, che dia fiato ad un economia in sofferenza e crei le basi per uno sviluppo duraturo. E langue pure un' idea di rinnovamento anche sul fronte delle istituzioni, fattore non certo indifferente per impostare serie e durature politiche di sviluppo, in particolare in quelle aree del paese che sono in perenne affanno e che non riescono a traguardare nemmeno standard minimi di servizi essenziali, non solo allo sviluppo di un'economia, ma al vivere civile.

«Sarebbero necessarie politiche industriali realmente innovative rispetto ai modelli precedenti» scrive giustamente Luciano Gallino oggi dalle pagine di Repubblica, rivendicando la necessità di garantire «il diritto ad una ragionevole sicurezza socio-economica» assente da troppo tempo e non più procrastinabile.

Che non è poi diverso dal sostenere un diritto ad una sicurezza ambientale e dalla richiesta di una politica che sappia guardare al futuro, indirizzata verso un modello che tenga in conto delle risorse naturali e le sappia opportunamente utilizzare senza mettere in crisi la loro rinnovabilità e la loro esistenza.

Impostare politiche che non erodano senza limiti il capitale naturale ma che lo trattino anzi con l'approccio che classicamente si applica al capitale che è quello di farlo aumentare anziché ridurre , non è cosa diversa dall'impostare politiche che garantiscano sicurezza socio- economica, anzi ne sono la leva e il motore, creando le opportunità per assicurare stabile e duratura occupazione anche per le prossime generazioni oltre che per quelle contemporanee.

Certo non è dando soldi a pioggia alle imprese che cambiano i loro macchinari, senza valutare a quali imprese e per quali macchinari, che si impostano politiche di ripresa che abbiano quelle caratteristiche.

Così come non è ripristinando una Cassa per il Mezzogiorno, seppur con impostazioni anche diverse dal vecchio carrozzone chiuso un decennio fa, che si potranno arginare i divari che tengono al palo il sud d'Italia.

«Per cominciare a ridurre questi divari - scrive Tito Boeri sempre su Repubblica - per renderli nel frattempo meno penalizzanti, ci vogliono istituzioni migliori. In difetto di capitale umano e sociale, ci vuole più Stato di qualità, più beni pubblici».

Il problema è che manca uno Stato di qualità e siamo ampiamente in difetto di capitale umano che sappia esprimere un'idea di futuro che non rimastichi sempre e solo ricette del passato. E certo non è un buon viatico.

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