
[19/05/2010] News
LIVORNO. C'è un rischio vero che ci pare stia nascendo dalla lunga - pure troppo - discussione sugli indicatori alternativi al Pil. Leggendo quanto scrive oggi Marco Fortis sul Sole24Ore e la ripresentazione odierna di Repubblica del Piq di Symbola di Ermete Realacci, subodoriamo un certo tentativo di non rincorrere quella che può essere la migliore fotografia dello stato di salute reale dell'economia, bensì un escamotage per dire che il Paese cresce sempre e comunque rincuorando così borse, società di rating e consumatori. Sostiene Fortis che «permane la diffusa convinzione di una "lentezza" di fondo dell'Italia non solo verso le economie "dopate" ma anche rispetto a paesi "virtuosi" a noi più simili come Germania e Francia perché, prima della crisi mondiale, in base alle statistiche ufficiali noi avevamo comunque accumulato qualche punto di crescita del Pil in meno anche nei confronti di tali paesi. Ma ne siamo davvero così certi?».
«I ritardi strutturali dell'Italia nei riguardi di Germania e Francia - aggiunge - indubbiamente esistono e vanno recuperati: ad esempio in termini di efficienza della pubblica amministrazione o di costi dell'energia rispetto alla Francia, di ricerca o di formazione rispetto alla Germania eccetera. Ciò non si discute assolutamente. Ma, forse, è lecito invece nutrire qualche interrogativo sull'attendibilità delle statistiche dell'ultimo decennio relative al Pil dell'Italia e dei due nostri più grandi partner nell'Euroarea».
In pratica Fortis spiega che potrebbe anche essere quasi solo un problema di come si fanno i conteggi: «È noto che nel nostro paese da qualche tempo si dibatte sull'"esattezza" dei dati del Pil italiano. A parte la questione del "sommerso" (che è un problema di misurazione enorme), c'è chi ha avanzato l'ipotesi che un utilizzo di deflatori del Pil troppo "aggressivi" abbia trasformato la nostra recente crescita economica, tutt'altro che disprezzabile a valori correnti, in un'espansione in volume eccessivamente "sacrificata". Ciò riguarderebbe soprattutto il settore manifatturiero (come hanno messo in evidenza recenti analisi di Fulvio Coltorti del Centro studi di Mediobanca), ma anche altri comparti.
E poiché la crescita del Pil si misura in volume ed è in volume che si fanno le comparazioni dinamiche con gli altri paesi, ecco che dall'eccessiva "autoflagellazione" che ci siamo imposti a livello di deflatori potrebbero originare non pochi problemi interpretativi e di ricostruzione storica, inclusa anche la fondatezza delle controverse ipotesi di "declino"».
Ecco la parola magica: deflatori. Il deflatore «è uno strumento che consente di "depurare" la crescita del Pil dall'aumento dei prezzi. Poiché il PIL è dato dal prodotto prezzo per quantità, occorre sapere se la crescita da un anno all'altro è dato dalla quantità prodotta o dall'aumento dei prezzi. Il deflatore risulta quindi dal rapporto tra il PIL nominale (quantità per i prezzi correnti) e il PIL reale (quantità per i prezzi costanti)».
Attraverso di esso, secondo Fortis, si può dunque imbrogliare, pardon, dopare il proprio Pil e dunque «l'impiego di nuovi deflatori basati sui prezzi all'esportazione, anziché sui valori medi unitari del commercio con l'estero come avviene tuttora, potrebbe determinare qualche futura revisione statistica». «Senza contare - prosegue - che rimane aperta la questione se, in questa fase storica di enorme cambiamento della nostra industria manifatturiera, i dati in volume siano efficacemente rappresentativi della realtà. Infatti, l'industria italiana negli ultimi anni ha mutato radicalmente pelle generando meno volumi e meno produzioni tradizionali e più valore aggiunto e più produzioni innovative. Non era forse questo che tanti economisti invocavano e auspicavano che facessero i nostri imprenditori, nel delicato passaggio tra la fine dell'era delle svalutazioni competitive e l'avvento della concorrenza cinese, con cui l'Italia ha dovuto fare i conti prima di tutti gli altri paesi avanzati?».
Ecco se Fortis avesse in mente che cosa sta sotto l'economia e le sue misurazioni fallaci, Pil in testa, dovrebbe porre la questione in maniera assai diversa perché il punto sulla necessità di indicatori diversi sta proprio qui. I nuovi indicatori dovrebbero calcolare l'impatto ambientale e sociale che l'economia di un Paese ha sul proprio e sull'altrui territorio visto che siamo in un mondo globalizzato (e non tralasciare ad esempio la contabilità dei flussi di materia, cosa del tutto sconosciuta ai più).
Invece qui sembra si cerchi soltanto di misurare - magari anche con qualche furberia visto che così fan tutti - quello che cresce e il resto chissenefrega. In questo anche il Piq non è molto più virtuoso visto che cerca di dare più visibilità alle cose che funzionano e che si basano sulla qualità , la cosiddetta soft economy, ma che non si può scambiare con una fotografia rappresentativa dell'economia italiana in questo caso.
La contabilità ambientale nazionale propedeutica alla creazione di un indicatore standardizzato e condiviso come lo è il Pil dovrebbe dare,invece, una fotografia reale del Paese anche attraverso indicatori sociali aggregati; sul perché faccio un esempio banale: con la crisi degli ultimi anni (aggravatasi drammaticamente dal 2008 ad oggi) alcune aziende piccole ma di alto livello in termini di valore aggiunto hanno certamente resistito meglio e certamente i consumi di materia e di energia si sono ridotti, e rappresentano senza dubbio una eccellenza che andrebbe perseguita ma vogliamo dire per questo che il nostro Paese nel 2010 è sostenibile?