[20/05/2010] News toscana

Pubblico, privato, sviluppo urbano: le lezioni del Maggio

LIVORNO. Da economista melomane, provo a trarre dalla dolorosa vicenda del Maggio musicale fiorentino qualche insegnamento di "politica economica".

Una premessa, innanzi tutto: rispetto ad altre performing arts l'opera ha alcune caratteristiche economiche peculiari. Innanzi tutto richiede un'infrastruttura importante e costosa: il teatro. E non un teatro qualsiasi, ma un impianto tecnologicamente allo stato dell'arte, dotato di caratteristiche specifiche e specificamente progettate (ad esempio una certa acustica o una capacità avanzata di gestione dei cambiamenti di scena). A ciò si aggiungono poi alti costi di produzione per uno spettacolo che è molto labor-intensive, dato che comporta l'impiego di masse di orchestrali, coristi, tecnici e macchinisti, una compagnia di canto (con eventuali sostituti), scene e costumi predisposti ad hoc, oltre alla direzione musicale e alla regia teatrale. E tutto ciò non solo per il tempo delle rappresentazioni, ma anche per quello delle prove, che per produzioni nuove e difficili possono richiedere un lungo lavoro.

Ci troviamo in altre parole di fronte ad un'impresa culturale complessa e costosa come nessun'altra. Essa non solo è difficilmente sostenibile senza risorse pubbliche, ma non è sostenibile nemmeno (e non lo è mai stata) dal mecenatismo privato, per quanto "detassato", secondo l'assai mitizzato modello nordamericano. Piaccia o meno, l'opera deve confrontarsi col mercato di chi paga il biglietto.

Il teatro d'opera è inoltre sempre stato un elemento caratterizzante dei paesaggi urbani, spesso diventando (anche di recente: si pensi a Sydney) icona, landmark della città. Ma come spiegare ancora negli ultimi decenni i molti casi di dispendiosa costruzione e ricostruzione di teatri, grandi e belli, da Copenhagen a Pechino, da Valencia a Oslo?

Il teatro d'opera ha in tutti questi casi un rapporto diretto con le politiche di sviluppo urbano, perché aggiunge alla città una funzione "alta", qualificante e moderna.

Oggi una Opera House non è più (come qualcuno da noi spesso si ostina ad immaginare) il luogo di un grande spettacolo popolare "locale", come è stato dall'Ottocento almeno sino alla metà del secolo scorso. Negli ultimi cinquant'anni un insieme di motivi economici e culturali hanno rapidamente trasformato l'opera in uno spettacolo colto, sperimentale, attualizzato ed attuale e, per le sue stesse modalità organizzative (dalla transnazionalità degli artisti a quella delle reti di co-produzione), "globale". Costruire o ricostruire un teatro d'opera significa scommettere su una proiezione internazionale della città di alto profilo, adeguata ad uno scenario di economia e di società della conoscenza.

Nelle recenti vicende del Maggio colpiscono allora alcuni ritardi ed alcune confusioni concettuali, dalle gravi implicazioni concrete. Un primo fraintendimento (comune ad altre imprese culturali, come l'università) è quello della intercambiabilità tra fondi pubblici e fondi privati: scappano i mecenati ed allora i vari livelli di governo "devono" compensare con maggiori contributi; riduciamo i contributi statali ed i mecenati dovrebbero arrivare in generoso soccorso. C'è da stupirsi se il risultato è sempre solo un bilancio in rosso?

L'approccio corretto sarebbe un altro, come dimostrano non solo i casi stranieri, ma anche alcuni nostrani: pubblico e privato sono complementari, nel senso che è la gestione oculata e credibile delle risorse pubbliche che "tira" fondi privati. "Si aiutano le istituzioni meritevoli", ha appunto ricordato l'anno scorso Ferruccio Ferragamo nel cancellare le proprie elargizioni al Comunale. Ed è solo la capacità di attirare fondi privati, che giustifica ulteriori fondi pubblici: su questo il vituperato decreto Bondi forse non ha tutti i torti.

Come si innesca questo circolo virtuoso? Si è molto parlato dei costi: sulla loro comprimibilità è difficile commentare dall'esterno. Più evidente è invece la questione del basso volume di attività, che è in stridente contrasto (come ancora dimostrano i teatri europei) con l'esigenza di compensare gli alti costi fissi e di produzione: nel 2009-2010, al Comunale vi sono state 42 recite d'opera contro le 72 di Roma, le 105 di Milano, le 161 di Londra, le 203 di Zurigo, le 226 di Vienna. Tentativi sono stati fatti, ma con dubbia coerenza, se si esclude lo sconsiderato inseguimento del mito nazional-popolare dell'opera, riproposto nella fattispecie dello spettacolo low-cost e propagandato, come qualcuno ricorderà, con l'immagine dell'opera in lattina. Una "strategia" che qualsiasi matricola di un corso di marketing saprebbe commentare e che ricorda da vicino la follia suicida di quei produttori di vino che pensarono di conquistare mercati, mettendo appunto il vino in lattina.

Vi è poi il rapporto con lo sviluppo urbano e qui dobbiamo parlare di vero e proprio fallimento. Il problema è stato banalizzato nello stereotipo della città ingrata, un po' gretta e distratta. La realtà è che la saldatura tra teatro e sviluppo non è stata né concepita né ovviamente realizzata.

Che un teatro dagli esiti artistici di altissimo livello, guidato da una delle poche grandi icone globali della musica colta quale è Zubin Mehta, non riesca a prosperare in una città che vanta un flusso turistico internazionale da 11 milioni di presenze all'anno, sarebbe francamente difficile da spiegare in qualsiasi altro luogo al mondo. Non a Firenze, ossia in una città che non è abituata a pensare strategicamente alla propria industria turistica, ma che si può permettere semplicemente di sfruttare le eredità del passato, confidando nel fatto che i turisti vengono a visitarla comunque, anche se non si fa nulla per loro.

Il teatro d'opera è allora catalogato (si rileggano le dichiarazioni delle ultime settimane) come un "simbolo", un "biglietto da visita", una "eredità da tutelare", mai come un fattore di sviluppo e di attrattività. Per Firenze il teatro è un di più, è un lusso. Zubin Mehta e la sua orchestra sono come quella Ferrari che un ricco provinciale si tiene in garage per farsi un giro la domenica in piazza e mostrarla agli amici. E invece, a saperla guidare sul serio, lo farebbe andare a trecento all'ora...

 

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