[07/08/2009] News

L'Italia: il paese che parla sempre d'innovazione ma non la fa

LIVORNO. Il 2009 è stato riconosciuto dall'Unione europea "Anno della Creatività e dell'Innovazione", il secondo ciclo di programmazione previsto dalla rinnovata strategia di Lisbona (2008-2010) la pone come uno strumento da perseguire nell'ambito degli obiettivi strategici, l'Ocse ne fa una vera e propria strategia e lo scorso anno anche il nostro paese ha istituito la Giornata dell'innovazione, come occasione di sensibilizzazione dei cittadini e di coordinamento tra tutti i principali attori pubblici e privati per fare il punto sullo stato dell'arte.

Di innovazione se ne parla molto e non c'è ormai dibattito in cui non si richiami alla necessità di investire nell'innovazione tecnologica per rilanciare l'economia, per garantire la competitività, per tornare a far crescere il pil. La realtà è però che mentre di innovazione se ne parla, il pil scende: sulla base delle informazioni finora disponibili, si legge oggi  in una nota dell'Istat,  nel secondo trimestre del 2009 è diminuito dello 0,5% rispetto al trimestre precedente e del 6% rispetto al secondo trimestre del 2008. Una contrazione congiunturale, dice Istat, che risulta da una diminuzione del valore aggiunto dell'agricoltura, dell'industria e dei servizi.

Come i dati relativi all'indice di produttività resi noti ieri sempre da Istat, segnalavano un segno negativo rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, tranne che per i prodotti farmaceutici. Colpa della crisi, senza dubbio, dal momento che i dati del pil (volendo utilizzare questo indice che sappiamo non essere esaustivo ma che è confrontabile in maniera omogenea) sono in calo ovunque, ma anche segno per il nostro paese, di una scarsa tendenza ad investire (in senso lato, quindi sia come risorse economiche che come approccio culturale) in ricerca e innovazione tecnologica. In Italia, che fa parte del gruppo degli "innovatori moderati", la capacità di innovazione è al di sotto alla media dei 27, secondo l'ultimo rapporto europeo sul tema e anche il tasso di miglioramento è inferiore a quello dell'Ue.

E adesso la crisi economica ha indotto le imprese a scegliere di mettere tra le priorità la sopravvivenza piuttosto che l'innovazione e lo squilibrio registrato nei primi tre mesi dell'anno tra la percentuali di imprese che hanno ridotto gli investimenti in innovazione e quelle che invece li hanno alimentati è netto: 24,7% rispetto a 9,8%, ovvero 16 punti di differenza, come si legge nel rapporto Cnr su dati europei.

L'innovazione si evoca quindi ma non si persegue, nel paese che anche in questo mostra il suo istinto gattopardiano ben descritto da Tomasi di Lampedusa, con la celebre frase di Don Fabrizio «se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

Come, infatti, scrive Ignazio Cipolletta sul Sole24Ore «La ricerca e l'innovazione sono spesse eversive, proprio perché modificano gli equilibri consolidati. Per questo motivo sono spesso osteggiate in vario modo dagli interessi costituiti: corporazioni d'imprese che vedono cadere le loro posizioni di vantaggio, dirigenti e professori che si vedono scavalcati dalle nuove leve, ideologi e politici che temono di perdere la loro capacità d'influenza».

Ma non basterebbe la suggestione della reticenza culturale e della mancanza, quindi di un clima ad essa favorevole per spiegare il ritardo con cui l'Italia si muove in questa direzione.

C'è infatti da considerare una miopia politica che anziché promuovere gli sforzi, seppur limitati, in tal senso che provano a fare le imprese, ci mette anche degli ostacoli. Come è stato il caso del credito d'imposta su Ricerca e sviluppo su cui l'attuale governo è riuscito a smontare anche il sistema, introdotto nella finanziaria 2007, per stimolare l'innovazione tecnologica delle imprese sia sui prodotti che sui processi. Uno strumento per cui la finanziaria del 2008 aveva incrementato la percentuale dal 15 al 40% sui contratti stipulati con Università e enti pubblici di ricerca ed aveva innalzato il tetto massimo dei costi (da 15 milioni a 50 milioni di euro) su cui applicare appunto il calcolo del credito d´imposta.

Uno strumento su cui l'attuale governo «ha cambiato le regole in corso d'opera» come ricorda anche il vicepresidente di Confindustria, Giuseppe Morandini, prevedendo l'ormai famosi click day per accedervi, con l'unica intenzione di limitare il numero dei progetti che avrebbero potuto accedervi. Senza nessun meccanismo di selezione, se non quello di chi per prima riusciva ad inviare la domanda. Contraddicendo anche la tanto osannata meritocrazia cui ad ogni occasione si fa riferimento proprio da parte di questa maggioranza.

Chi invece non ha mai smesso di puntare alla ricerca e all'innovazione e l'ha anche orientata, almeno in parte, verso criteri ecologici ne trae oggi le conseguenze positive. E' il caso della Germania, paese di testa a livello europeo in questo campo, che come tutti gli altri ha avuto da fare i conti con una crisi finanziaria e con le conseguenze che questa ha portato sull'economia reale. In cui è sceso il pil e aumentata la disoccupazione, ma che anche in questa fase assai critica per le economie industrializzate, ha visto le imprese continuare ad investire in ricerca e innovazione tecnologica e il governo offrire programmi di aiuti pubblici che stanno dando i primi positivi risultati relativamente alla sua ripresa economica.

I dati tedeschi pubblicati ieri mostrano, infatti,  un aumento degli ordini all'industria del 4,5% a giugno, il dato più alto degli ultimi due anni, con commesse che arrivano dall'estero pari al +8,3% e del +13,2% dalla zona euro. Difficile aspettarsi da un governo che va avanti con la testa rivolta all'indietro e che investe in carbone e nucleare come tecnologie per il futuro, e cha è retto da una maggioranza che presenta e approva in Senato una mozione contro la ricerca sul solare termodinamico, che si comprenda come la strada per il futuro è nell'innovazione tecnologica. Auspicare poi che questa innovazione venga orientata a ridurre il peso che attualmente l'economia esercita sul capitale naturale sarebbe davvero pretendere troppo.

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