[11/06/2010] News
LIVORNO. Termina oggi a Bonn l'ennesima sessione interlocutoria dei climate change talks dell'Infccc e lo fa nel peggiore dei modi: ieri l'Arabia Saudita ha bloccato una richiesta dei piccoli Stati insulari vulnerabili di prendere in considerazione uno studio sugli impatti di un innalzamento delle temperatire medie di 1,5 gradi (0,5 gradi in meno di quanto previsto dall'Accordo di Copenhagen). L'appello dell'Association of small island State (Aosis), l'organizzazione che riunisce le piccole isole di Caraibi, Oceano Indiano e Pacifico era l'ennesimo tentativo per costringere l'Onu a non abbandonare l'obiettivo 1,5 gradi che si sta sempre più allontanando, mentre aumentano i problemi politici ed i governi dei Paesi petrolioferi, industrializzati ed emergenti fanno di tutto per cercare di non rispettare gli impegni presi (voontari e obbligatori) sul taglio delle emissioni di gas serra.
Le tesi dell'Oasis hanno ottenuto il sostegno dell'Unione Europea, dell'Australia e della Nuova Zelanda ed il punto centrale era quello della richiesta di una relazione tecnica sui costi economici da affrontare per raggiungere l'obiettivo 1,5 gradi e sulle conseguenze che avrebbero gli sforamenti di questo limite.
Quello che è ancora più incredibile è che, mentre l'Arabia Saudita impediva di discutere, a Bonn veniva diffuso un documento che avvertiva che l'obiettivo dei 2 gradi è già una favola mal raccontata: se mettesse in atto così come sono l'Accordo di Copenhagen ed altre politiche internazionali, entro il 2100 il mondo avrebbe un aumento della temperatura globale di 3 gradi centigradi entro il 2100.
Bill Hare, del prestigioso Potsdam institute for climate impact research, ha spiegato i dati contenuti nel rapporto: «Gli impegni attuali e le loro lacune ci danno la virtuale certezza di un aumento di 1,5 gradi centigradi, con un riscaldamento globale probabilmente molto superiore a 2 gradi e, con una probabilità di oltre il 50%, superiore a 3 gradi centigradi entro il 2100».
Ma l'Arabia Saudita, sostenuta apertamente dalle monarchie petrolifere del Kuwait e del Qatar e sotterraneamente da tutti i Paesi petroliferi, si è opposta perché il taglio delle emissioni di CO2 farebbe calare il consumo di petrolio e quindi danneggerebbe le sue entrate. I Paesi della Penisola Arabica, che pure all'estero investono in tecnologie per lo sviluppo delle rinnovabili, non vogliono nemmeno sentir parlare di una reale transizione dai combustibili fossili all'energia pulita».
L'agenzia AP riassume gli umori di Bonn con una frase attribuita ad uno dei delegati: «L'atmosfera è stata pessima. Molti paesi hanno dichiarato di essere molto delusi dell'atteggiamento dei sauditi».
Wendel Trio, di Greenpeace International, non sa se essere più deluso o inferocito: «Molti piccoli Stati insulari rischiano di diventare dei senza-terra per l'innalzamento del livello del mare, è questo il motivo per cui chiedono che l'aumento della temperatura globale sia mantenuto sotto gli 1,5 gradi; Che l'Arabia Saudita, un Paese con evidenti interessi petroliferi, sfrutti il Consensus rule dell'Onu per impedire ai Paesi più vulnerabili del mondo di ottenere una sintesi della più recente scienza del clima, mozza il fiato per la sua indifferenza criminale per le conseguenze umane del cambiamento climatico».
La monarchia integralista islamica dell'Arabia Saudita si è così assunta il ruolo di difensore dell'Accordo di Copenhagen e dei 2 gradi, mettendo la sua faccia petrolifera davanti ai due terzi dei Paesi Unfccc che l'hanno sostenuto e blindandolo con il veto per arrivare il 29 novembre a Cancun senza praticamente aver ridiscusso nulla.
E' evidente che dopo Bonn in molti si chiedono quale sia l'utilità di spendere soldi ed energie per i prossimi climate change talks ordinari e straordinari.