[21/06/2010] News

La Recensione. La cultura dell'innovazione in Italia (autori vari)

«Il pericolo è reale, ma il rischio è costruito socialmente»: questa considerazione dello psicologo Paul Slovic rappresenta le fondamenta della seconda edizione del rapporto "La cultura dell'innovazione in Italia", edito dalla fondazione Cotec per l'innovazione tecnologica insieme alla rivista "Wired" e all'Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche (Irpps-Cnr).

Il rapporto 2010 è stato ricavato tramite 4000 interviste telefoniche (metodo Cati), nelle quali è stato chiesto a cittadini italiani di entrambi i sessi e di età tra 30 e 44 anni di rispondere a domande inerenti il rapporto con tecnologie oggi considerate innovative - tra cui vanno citati in particolare il nucleare, internet, la Tav, gli impianti di incenerimento/termovalorizzazione dei rifiuti, l'energia solare e gli ogm - e in generale riguardo ai driver che più incidono sulle loro scelte d'acquisto.

La ricerca è suddivisa in una parte autoreferenziale ed una che "dialoga" con analoghe iniziative compiute in questi anni da Eurobarometro e con altri documenti prodotti da enti deputati ai rilevamenti statistici (come lo stesso "Rapporto cultura dell'innovazione" 2009) e da vari studiosi riconducibili al campo della ricerca/azione di natura sociale, come lo stesso Slovic.

Il taglio della ricerca è spiccatamente di genere, nel senso che ampio spazio è stato dedicato alle indagini sulle differenze (e sui punti in comune) tra uomini e donne riguardo alla percezione dei rischi associati all'innovazione tecnologica in generale e a tecnologie specifiche: inoltre, nelle valutazioni "ibride" tra il Rapporto 2010 e gli altri documenti analoghi discusse sopra, significativi ambiti di analisi sono riservati alla modulazione dei rilevamenti per campo di età, condizioni economiche e occupazionali, tasso di scolarizzazione e - finanche - per etnia: in questo senso, possiamo dire che in generale l'approccio nei confronti dell'innovazione (e quindi delle tecnologie considerate innovative) è più "ottimista" da parte degli individui di sesso maschile, di cultura e tasso di integrazione elevati, di condizioni economiche solide e (almeno secondo studi compiuti in Nordamerica) di razza bianca.

Valutazioni che, naturalmente, non vanno analizzate in solo riferimento al dato "grezzo", ma comunque conclusioni sostenute dai dati ottenuti nella ricerca 2010 e in quelle analoghe discusse: infatti, in linea generale, anche se «le differenze di genere nella percezione di rischi e benefici delle tecnologie esaminate non sono molto marcate», comunque in alcuni casi esse sono «statisticamente significative». Ad esempio, «nel caso della percezione dei rischi, quando esistono differenze di genere, tali differenze indicano che le donne percepiscono le tecnologie come leggermente più rischiose degli uomini», e analoga considerazione vale - in senso opposto - riguardo al riconoscimento dei possibili benefici. A titolo esemplificativo, possiamo citare la ricerca Eurobarometro 2010 che valuta nel 51% la percentuale di cittadini europei che ritengono che il nucleare offra più rischi che benefici, di fronte ad un 35% che ritiene vera l'affermazione contraria: ma questo 51%, scomposto per genere, rivela che la percentuale di individui di sesso femminile che vedono più rischi che benefici nel nucleare è del 55%, di fronte al 47% di individui di sesso maschile che hanno dato la stessa risposta. Una differenza che sicuramente assume valenza statistica.

Anche riguardo ai possibili benefici, un'altra indagine Eurobarometro indica che «il 73% degli uomini (vs. il 64% delle donne) pensa che l'energia nucleare ci renda meno dipendenti dalle importazioni, il 56% degli uomini (vs. il 47% delle donne) ritiene che l'energia nucleare assicuri prezzi dell'energia più stabili e competitivi, e il 52% degli uomini (vs. il 41% delle donne) pensa che l'energia nucleare possa limitare i cambiamenti climatici». E, rispetto al generale approccio ai fattori di rischio (e quindi all'analisi comparata rischi-benefici), viene sottolineato che «meta-analisi di 150 studi sulle differenze di genere in relazione ai comportamenti rischiosi ha concluso che gli uomini sono complessivamente più inclini a correre rischi delle donne. (..) I risultati hanno evidenziato il fatto che le donne sono più avverse al rischio rispetto agli uomini in quasi tutti i domini considerati, ad eccezione del dominio dei rischi sociali».

Queste divergenze di genere (il cui studio, è da ricordare, «si inscrive in una lettura condivisa con le molte organizzazioni nazionali ed internazionali che si occupano da tempo di analizzare la questione donne e scienza/tecnologia/innovazione in relazione al lavoro altamente qualificato, all'istruzione, alla società, alla produttività» ed è svolto sia a fini sia analitici sia di perseguimento di una vera parità sociale attraverso la valorizzazione delle - eventuali - specificità attitudinali) sono state motivate attraverso varie ipotesi: ad esempio, «è stato ipotizzato che le donne siano maggiormente attente alla salute e alla sicurezza a causa del loro ruolo di madri che generano e sostengono la vita (Steger & Witt, 1989). Inoltre, le donne sono maggiormente vulnerabili rispetto alla violenza, e questo potrebbe renderle maggiormente sensibili nei confronti di altri rischi (Baumer, 1978; Riger, Gordon & LeBailly, 1978)». Altri studi hanno invece attribuito alla perdurante non-uguaglianza di genere (almeno nei paesi che, come l'Italia, da questo punto di vista sono particolarmente sottosviluppati, come testimonia il piazzamento del Belpaese - 72° posto su 134 paesi considerati - nella graduatoria del Gender gap index, che misura «la capacità di un paese di suddividere equamente risorse ed opportunità fra i due generi, a prescindere dall'entità di tali risorse») la divergenza in termini di approccio al rischio, nel senso di una minore possibilità per le donne di accedere alle informazioni necessarie per un informato consenso/dissenso sull'utilizzo di nuove tecnologie: questa ipotesi, però, viene vanificata dalle conclusioni di un'ulteriore studio, svolto in ambienti accademici nel 1997, che ha testimoniato che anche «le scienziate nell'ambito delle scienze fisiche giudicavano maggiori i rischi derivanti dalle tecnologie nucleari rispetto agli scienziati dello stesso settore disciplinare».

Non c'è da stupirsi, comunque, che sussistano divergenze così significative di genere riguardo all'approccio alle innovazioni tecnologiche: una netta variabilità emerge anche riguardo, come detto, all'età, alle condizioni socio-economiche, e anche alla razza/etnia di provenienza. In particolare, altro elemento di interesse è il cosiddetto "effetto white male": riguardo alle valutazioni del rischio, infatti, dai dati derivanti da varie ricerche, e disaggregati in relazione alla tipologia dell'intervistato (donna bianca, donna non bianca, uomo bianco, uomo non bianco) emerge che «gli uomini bianchi avevano percezioni di rischio sistematicamente inferiori alle valutazioni degli altri tre gruppi di partecipanti (che non differivano tra loro)». Questo fattore, definito appunto "effetto white male", sembra essere «causato da una percentuale del campione (circa il 30%) che ha giudicato estremamente bassi i rischi (mentre i giudizi degli altri uomini bianchi non differivano molto dai giudizi delle persone appartenenti agli altri gruppi)». Questo "nocciolo duro" degli amanti dell'innovazione a tutti i costi, tipicamente caratterizzati da «un miglior livello di educazione (42.7% universitario o post-universitario vs. 26.3%), un reddito maggiore (32.1% sopra i 50,000 dollari vs. 21.0%)» e «politicamente più vicini ad una politica di tipo conservatore (48.0% conservatori vs. 33.2%)», tende secondo gli studi compiuti anche ad «esprimere accordo su affermazioni che rivelavano un atteggiamento piuttosto autoritario e anti-egalitario nei confronti della gestione dei rischi associati alle tecnologie. Questi partecipanti esprimevano inoltre fiducia nelle istituzioni e nei ‘gestori' delle tecnologie stesse (incluse le industrie del settore), manifestando disaccordo rispetto alla possibilità di dare ai cittadini potere decisionale sulla gestione dei rischi». E' stato anche ipotizzato, comunque, che questo fattore possa essere legato all'ineguale distribuzione del potere politico/economico su scala etnica, nel senso che è anche possibile che «il gruppo responsabile dell'effetto white male percepisca minori rischi perché è maggiormente coinvolto nella produzione, gestione e fruizione delle tecnologie».

In conclusione, i risultati che emergono dagli studi riassunti nel Rapporto sull'innovazione 2010 vanno tutti nella direzione indicata dal già citato Slovic: «le persone che attribuiscono meno importanza all'affermazione personale, danno maggior peso alla distribuzione equa delle risorse, e sostengono i processi decisionali basati sulla valutazione della comunità percepiscono molte tecnologie e attività pericolose come molto rischiose. Rispetto ai maschi bianchi, molte donne e maschi non bianchi tendono ad essere in posizioni di minore potere e controllo, beneficiare meno di molte tecnologie e istituzioni, e sono più esposti alla discriminazione, e quindi percepiscono il mondo come più pericoloso», con la ovvia conseguenza di un più prudente approccio ai rischi contenuti in ogni elemento di innovazione.

Per quanto riguarda i dati più specificatamente inerenti alla situazione italiana, e al rapporto degli italiani con la tecnologia rimandiamo all'articolo (vedi link in fondo alla pagina) che greenreport ha già dedicato al Rapporto "La cultura dell'innovazione in Italia", di cui sono da ricordare le conclusioni apparse più significative e cioè il fatto che, nella bilancia rischi-benefici relativa alle tecnologie di più diretto interesse per la sostenibilità, sono il nucleare e gli ogm le tecnologie su cui gli italiani valutano più ampia la "forbice" in senso negativo mentre è l'energia solare (seguita dalla Tav) ad avere una forbice più positiva. Particolarmente significativo è anche il fatto che, se in generale (sia in Italia che in Europa) un approccio "aperto" alle nuove tecnologie è più radicato nelle categorie più benestanti, più integrate e più acculturate, discorso diverso vale per il nucleare: se in Europa, infatti, esso è - pure - effettivamente accettato con più facilità dalle categorie più informate, in Italia «rispetto al nucleare, gli e le occupate a livelli elevati perdono il loro avamposto dell'ottimismo tecnologico, che passa ai livelli occupativi di base (rispettivamente 24,3% e 25,3%)». In generale, secondo l'indagine si dicono "ben disposti" verso il nucleare «24, 5% degli uomini e il 16,7% delle donne».

In generale, comunque, il "Rapporto innovazione 2010" sconta la limitatezza dell'indagine compiuta in termini di range di età sottoposto ad analisi, ed è anche spiccatamente condizionato - come sempre avviene nei rilevamenti sondaggistici - dalla tipologia di domande contenute nel questionario, nel senso che la valutazione dei "rischi" andrebbe contrapposta più alle "opportunità" ("che cosa potrebbe succedere?", sia in senso positivo che negativo) che ai "benefici", che essendo riferibili alla categoria del "cosa di sicuro avverrà" avrebbero come contraltare preferibile quello delle "criticità". Insomma, l'accoppiamento rischi-opportunità e benefici-criticità (che poi è quello definito dalla cosiddetta "analisi Swot", considerata tra i principali strumenti disponibili per la pianificazione strategica in campo economico e nella letteratura dello sviluppo) appare più sensato rispetto a quello rischio-beneficio, poiché quest'ultimo può deviare la valutazione integrata sulla sostenibilità ambientale e sociale di un qualsiasi fattore (compresa una tecnologia innovativa) in direzione della sola percezione di un rischio, cioè di un pericolo, più che di una reale analisi comparata delle generali criticità negative, ad esempio riguardo alla sostenibilità economica. Ed è chiaro che questo discorso vale in particolar modo per il nucleare, tecnologia che - tra quelle oggi dibattute - più di tutte sconta, al margine degli appurati elementi di "pericolosità", degli elementi di "criticità" in senso prima di tutto economico.

Altro vulnus del rapporto sull'innovazione è il fatto che la trattazione relativa alle energie rinnovabili si limita alla sola tecnologia solare: e in questo senso non è ben chiaro se essa, come affermato in parti del testo, sia intesa come «comprensiva di tutte le Fer» o se vada intesa di per sé. In ogni caso, sarebbe auspicabile che, per la futura terza edizione del Rapporto, i rilevamenti andassero a verificare l'opinione degli italiani riguardo alle diverse tecnologie disponibili nel campo delle rinnovabili, in particolare all'energia eolica, che invece non ha ricevuto nemmeno un cenno specifico.

Molto interessante, invece, e utile soprattutto in termini comunicativi e di analisi socio-politica (oltre che al fine del perseguimento della sostenibilità sociale, obiettivo che - anche nella definizione degli indici di sviluppo complementari al Pil - passa sistematicamente anche per le valutazioni sulla condizione femminile, in primis sotto il punto di vista culturale, economico ed occupazionale), la disaggregazione dei dati per genere compiuta nell'indagine, elemento di analisi ben più innovativo rispetto a quelli inerenti alle diversità culturali, socio-economiche e di età, che evidenziano invece dati in buona parte già noti.

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