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[12/07/2010] News
FIRENZE. E' stato presentato oggi a Monopoli (Ba) il dossier-denuncia di Legambiente sulla corsa all'oro nero italiano. Ad oggi in Italia sono stati rilasciati 95 permessi di ricerca di idrocarburi, di cui 24 a mare, interessando un'area di circa 11 mila chilometri quadrati (kmq), e 71 a terra, per oltre 25 mila kmq. A queste si devono aggiungere le 65 istanze presentate solo negli ultimi due anni, di cui ben 41 a mare per una superficie di 23 mila kmq. Questi numeri in sostanza hanno suggerito il titolo al documento elaborato dall'associazione ambientalista, "Texas Italia", presentato durante la tavola rotonda "La minaccia del petrolio sul futuro sostenibile della Puglia".
Le ricerche dell'idrocarburo saranno effettuate soprattutto in mare, anche nelle Aree marine protette, ed in particolare saranno interessati il mar Adriatico centro-meridionale, lo Ionio e il Canale di Sicilia. Tra le ultime istanze presentate- informano da Legambiente- c'è la richiesta della Petroceltic Italia per permessi di ricerca nell'intero specchio di mare compreso tra la costa Teramana e le isole Tremiti. Queste ultime in particolare sono minacciate anche da un'altra richiesta per un'area di mare di 730 kmq a ridosso delle isole. Sotto assedio anche mare e coste sarde, sulle quali pendono due recenti istanze della Saras e due più vecchie della Puma Petroleum, per un totale di 1.838 kmq nel golfo di Oristano e di Cagliari; la stessa società detiene una richiesta anche nello specchio di mare tra l'isola d'Elba e quella di Montecristo, 643 kmq in pieno Santuario dei Cetacei all'interno del Parco Nazionale dell'Arcipelago Toscano.
L'Italia pare confermarsi come il Paese con più idrocarburi dell'Europa continentale e quindi è molto ambita dalle grandi compagnie petrolifere che commissione studi e prospezioni sul nostro territorio. Attualmente nei mari italiani operano 9 piattaforme per un totale di 76 pozzi, da cui si estrae olio greggio. Due sono localizzate di fronte la costa marchigiana (Civitanova Marche - MC), tre di fronte quella abruzzese (Vasto - CH) e le altre quattro nel canale di Sicilia di fronte il tratto di costa tra Gela e Ragusa. Sulla terra ferma invece le aree del Paese interessate dall'estrazione di idrocarburi sono la Basilicata, storicamente sede dei più grandi pozzi e dove si estrae oltre il 70% del petrolio nazionale proveniente dai giacimenti della Val d'Agri (Eni e Shell), l'Emilia Romagna, il Lazio, la Lombardia, il Molise, il Piemonte e la Sicilia.
Complessivamente lo scorso anno in Italia sono state estratte 4,5 milioni di tonnellate di petrolio, circa il 6% dei consumi totali nazionali di greggio, ma secondo le stime del Ministero dello sviluppo economico, sono ancora recuperabili da mare e terra italiani 129 milioni di tonnellate ed ecco perché l'attività di ricerca si va facendo sempre più frenetica, paradossalmente quando a livello internazionale si sta riflettendo sul disastro ambientale nel Golfo del Messico causato dalla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della BP (British Petroleum). «In seguito a questo gravissimo incidente - ha dichiarato Stefano Ciafani, responsabile scientifico Legambiente - sono state davvero propagandistiche le risposte date dal nostro governo. Il 3 maggio scorso, l'ex ministro Scajola ha convocato i rappresentanti degli operatori offshore per avere notizie sui sistemi di sicurezza ed emergenza senza risultati concreti. È importante notare che il risanamento per un incidente come quello americano nel nostro paese non sarebbe risarcito in maniera adeguata dai responsabili. Infatti ancora oggi le nostre leggi non hanno ancora risolto il problema del risarcimento in caso di disastro ambientale e inoltre le piattaforme non sono coperte dalle convenzioni internazionali. Altrettanto propagandistico ci è sembrato il provvedimento preso dal governo italiano a tutela di mare e coste nello schema di decreto di riforma del codice ambientale, approvato in Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo». Ricordiamo che le attività di ricerca ed estrazione di petrolio verrebbero vietate nella fascia marina di 5 miglia lungo l'intero perimetro costiero nazionale, limite che sale a 12 miglia per le Aree Marine Protette. Al di fuori di queste aree, le attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi verrebbero sottoposte a valutazione di impatto ambientale (Via). La norma si applicherebbe anche ai procedimenti autorizzativi in corso. «Si tratta di un provvedimento dall'efficacia davvero relativa - ha continuato Ciafani . La norma non si applica infatti a pozzi e piattaforme esistenti. E poi cosa cambierebbe se un incidente avvenisse in un pozzo o una piattaforma localizzata al di là di 5 o 12 miglia dalle coste? In caso di incidente sarebbe comunque un dramma per i nostri mari e per il Mediterraneo. Se spostassimo, infatti, la marea nera che sta inquinando il Golfo del Messico nell`Adriatico la sua estensione si spingerebbe da Trieste al Gargano».
Ma mettere a repentaglio l'ambiente ed una fetta dell'economia di alcuni territori basata su turismo e pesca vale almeno la pena? Parrebbe di no dato che l'Italia consuma 80 milioni di tonnellate di petrolio l`anno, e quindi le riserve di oro nero made in Italy agli attuali ritmi di consumo consentirebbero al nostro paese di tagliare le importazioni per soli 20 mesi. Quindi la ricerca non serve per il mix energetico ma per far arricchire le imprese straniere che hanno fiutato il business e trovano la "strada aperta" visto che specialmente in mare per avere un permesso di ricerca non è necessario sentire nemmeno le istituzioni locali. Inoltre il gioco non vale la candela neanche dal punto di vista occupazionale- sottolineano da Legambiente- Le ultime stime di Assomineraria quantificano la rilevanza economica e occupazionale del settore estrattivo in Italia come segue: un risparmio di 100 miliardi di euro nelle importazioni di greggio dall'estero nei prossimi 25 anni e la creazione di 34mila posti di lavoro. «Anziché investire nella folle corsa all'oro nero e all'atomo si dovrebbe puntare con decisione sullo sviluppo di efficienza energetica e fonti pulite, un settore capace di creare solo in Italia dai 150 ai 200 mila posti di lavoro entro il 2020 e capace di traghettare il paese verso un'economia a basso tenore di carbonio, una trasformazione necessaria, visti gli obiettivi vincolanti degli accordi internazionali sui cambiamenti climatici, a partire da quello Europeo fissato per il 2020» (20% risparmio energetico, 20% produzione da fonti rinnovabili, 20% riduzione emissioni di CO2 ndr).
E sul dossier è intervenuto anche Ermete Realacci, responsabile green economy del Pd: «Stop alle nuove trivellazioni petrolifere nei nostri mari. La tragedia del Golfo del Messico impone che anche nel nostro paese si avvii un'indagine per verificare lo stato di sicurezza delle piattaforme attive e delle trivellazioni esplorative nei nostri mari. In Italia ci sono molti fronti aperti che destano preoccupazione».
«E' questo un fronte di estrema delicatezza», prosegue Realacci, «anche perché la normativa italiana presenta non poche lacune. Per quanto riguarda le piattaforme petrolifere la questione si fa ancora più spinosa non solo perché queste non sono coperte dalle convenzioni internazionali come il fondo IOPC (International Oil Pollution Compensation), ma anche perché poco controllate specie se in alto mare, anche in aree estremamente vulnerabili e sensibili. Pensiamo, per esempio, al caso al largo dell'Isola d'Elba, in cui le trivellazioni vengono effettuate, in pieno santuario dei cetacei, da piccole società che non sarebbero in grado, in caso di incidente, di far fronte nè tecnicamente nè economicamente ai possibili danni ambientali».
«Mercoledì prossimo - conclude Realacci - «il Sottosegretario allo Sviluppo economico Stefano Seglia sarà in Commissione Ambiente della Camera per rispondere ad un'interrogazione che ho presentato sul tema. Ci auguriamo che il Governo intervenga con urgenza».