[01/09/2010] News
LIVORNO. A tre anni dall'inizio della crisi economico-finanziaria, e poi sociale e già ecologica, che ha colpito l'intero pianeta, di una cosa si può essere al momento certi: l'idea che il crack avrebbe aggregato gli Stati in nome di una governance capace di affrontare lo tsunami in corso è del tutto tramontata. La speranza no, ma i fatti dicono che siamo di fronte all'esatto contrario: ognun per sé specialmente in Europa. L'analisi di Charles Kupchan (politologo democratico, docente della Georgetown) sulla fine dell'Ue pubblicata oggi dal Sole24Ore è spietata quanto inattaccabile. «Da Londra a Berlino e a Varsavia - scrive Kupchan - l'Europa sta assistendo a una rinazionalizzazione della vita politica, con gli stati che fanno di tutto per riprendersi quella sovranità che un tempo erano disposti a sacrificare per l'obiettivo di un ideale collettivo».
Pur in un'economia di mercato, in attesa che qualcuno ne sappia immaginare un'altra alternativa e non fallimentare o dispotica come quelle già viste in passato, lasciare che sia questo ad autoregolamentarsi si è visto dove ci ha portati. Anche Martin Wolf sempre sul Sole sostiene che Obama - rimandato in economia - abbia fatto «l'errore di non osare abbastanza quando sarebbe stato necessario» così che ora «rischia di pagare un prezzo pesante». Obama, tuttavia, bisogna pur dire che è stato lasciato praticamente solo a gestire una situazione che non ha precedenti nella storia e che, come sostiene sempre Kupchan, proprio nell'Europa non ha trovato la sponda di cui aveva bisogno a causa della sua «presenza sempre più evanescente sulla scena geopolitica».
L'Ue insomma non conta più nulla o quasi e per Kupchan è un problema di leader e per questo confida in una nuova generazione che però al momento non si vede. Quando invece le crisi incombono e il tempo stringe.
Il punto è che la sostenibilità sociale e ambientale la si può inseguire e forse raggiungere se è il principio guida dei governi sparsi sul pianeta, i quali poi si pongono obiettivi comuni da raggiungere alcuni dei quali giocoforza su scala mondiale. Ridurre i flussi di materia e di energia volontariamente e non causa crisi senza perdere posti di lavoro e anzi cercare di moltiplicarli, così come combattere il cambiamento climatico o ridurre il divario tra ricchi e poveri, non sono cose che uno Stato può fare da solo. Figuriamoci una regione o un comune o un singolo cittadino.
Se le risorse del pianeta sono finite (o meglio non infinite) la ricerca della crescita sempre e comunque è ovvio che sia un suicidio, così come la decrescita si è visto quando poco felice sia, altrimenti in questi tre anni avremmo dovuto assistere a un tripudio generale. Come non può essere una sola persona, ancorché si chiami Marchionne e ancorché sia presidente della Fiat, che siccome lo ha deciso lui qual è la politica industriale di un Paese, questa esista anche se quel Paese non ha alcuna politica industriale (e da troppo tempo nemmeno il ministro che di questo dovrebbe occuparsi).
Senza considerare che andar dietro, come sempre Marchionne sostiene, alla legge della domanda e dell'offerta per far funzionare "Fabbrica Italia" nel mondo quando quel mondo è invece regolato dalla finanza, è un'altra velleità che a dir poco non ci convince.
Anche chi parla, sempre oggi sul Sole, delle false promesse dell'austerità, dimostra di non aver capito che questa strada che anni fa poteva essere intrapresa come scelta responsabile oggi o domani sarà imposta se non si trova un modello di sviluppo meno depauperante di energia e materia e che dunque non abbia in animo, rimanendo nell'esempio del mercato dell'auto, di riempire delle stesse ogni angolo del mondo possibilmente prevedendone la sostituzione sempre più a breve termine.
Ma è comunque difficile che la classe operaia, trasformata nel segmento medio-basso della più estesa "classe consumatrice", possa prendere lezioni sull'austerità da chi scorrazza in Ferrari e lancia proclami di moderazione salariale dai superyacht. Tanto che il richiamo di Tremonti ai lavoratori italiani all'austerità di Berlinguer, più che una farsa è una pessima caricatura.
La globalizzazione dei mercato e la finanziarizzazione dell'economia hanno purtroppo reso quasi illeggibili i flussi di energia e di materia che subiscono i colpi della speculazione che ne riducono e ingigantiscono i numeri al limiti del parossismo: vedi la produzione effettiva di barili di petrolio, circa 80 milioni di barili al giorno, contro gli 800 milioni di barili al giorno che è l'ammontare dei contratti future che vengono scambiati al Nymex di New York e all'Ice di Londra.
Dunque appare semmai una buona iniziativa che la Francia oggi proponga un piano comune (ne farà una priorità durante la sua presidenza al G20) per regolare i mercati delle commodity e regolare i derivati al pari di quello che si sta tentando di fare per i derivati sui prodotti finanziari. Anche se per i prezzi delle materie prime però c'è il solito rischio del controllo a danno dei Paesi produttori, che quasi sempre sono anche in via di sviluppo se non poverissimi. Da non esperti ci pare che sia comunque a questi livelli che si possa combattere davvero la battaglia per la sostenibilità.