[24/09/2010] News

I consumatori americani non comprano Climate Action

LIVORNO. Abbiamo ripreso integralmente un recente titolo di un articolo dell'Un Dispatch perché riassume bene quanto emerso nell'altro spezzone del dibattito tenutosi alla Clinton global iniziative, dopo che la direttrice dell'Unfccc Christiana Fugueres, aveva spiegato il misto di mancanze di scelte pubbliche e private  che ostacolerebbe i progressi dei negoziati internazionali sul clima. 

Alcuni pezzi da 90 del business americano hanno condiviso le loro prospettive e hanno naturalmente evidenziato le carenze dell'amministrazione Obama, i poteri ei limiti di intervento del settore privato e il ruolo dei cittadini Usa. Tutti fattori che stanno fortemente limitando la capacità della più grande potenza del mondo di proporre una politica climatico-energetica.

Il moderatore del dibattito, Mindy Lubber, presidente del Sustainable investor network Ceres, ha difeso le norme ambientali, in particolare quella contestatissima dal Partito repubblicano e dalla Big Oil che consente all'Epa di limitare le emissioni di CO2: «Dato che il Congresso non ha agito, è tanto più importante che l'l'Epa abbia l'autorità». Poi Lubber si è lamentato dei ritardi giuridico-burocratici che hanno impedito una rapida realizzazione dell'impianto eolico offshore a Cape Wind, a largo di Cape Cod frequentato dal turismo di lusso: «Non ci sarebbero dovuti volere dieci anni e mezzo».

Secondo l'amministratore delegato della Timberland, Jeffrey Swartz, «La politica ambientale del governo è afflitta da una mancanza di responsabilità e direzione». Anche lui ha utilizzato il caso di Cape Wind per illustrare come operano diversamente pubblico e privato: «Se mi ci fossero volute dieci settimane e mezzo per rispettare una promessa che avevo fatto, il Consiglio di amministrazione mi avrebbe dato fuoco. E io sono l'azionista di maggioranza della nostra azienda. L'assenza di leadership è la crisi nella protezione del clima».

Anche in America emerge un vizio planetario del business: i governi dovrebbero fornire i finanziamenti e proporre le regole, ma poi le imprese dovrebbero dire come spenderli e decidere se le regole sono giuste, magari spendendo milioni di dollari ed euro in operazioni di lobbyng e propaganda, per smontare le stesse regole che teoricamente chiedono e vanificarle con la complicità di una politica giudicata poco reattiva, coraggiosa e inefficiente. Forse lo stallo dipende anche da questo corto-circuito e da un'altra cosa: il business è riuscito, con un'operazione di politica-marketing eccezionale, a far dimenticare quasi completamente le sue responsabilità nella crisi finanziaria e del modello di sviluppo e il fatto che con la svolta neo-liberista molto spesso sono state le imprese a determinare le politiche di intere nazioni e che le multinazionali contano politicamente ed economicamente più della maggioranza dei Paesi del mondo. 

Ma allora, chi dovrebbe assumere la guida delle politiche di riduzione delle emissioni di gas serra e per la  prevenzione di cambiamenti catastrofici del clima? Swartz ha ripreso la metafora della Figueres di business e governi come partner di ballo che attendono ognuno che l'altro faccia il primo passo, ma ha spiegato perché non può essere il business a fare la prima mossa, a prendere l'iniziativa su un tema così grande e complesso come il cambiamento climatico: «Con una capitalizzazione di mercato di quasi un miliardo di dollari, Timberland non è piccola impresa. Eppure, quando ha avvicinato i suoi conciatori di pelle per ridurre l'impatto ambientale del loro procedimento, la company è stata gentilmente respinta. Per rendere green questo componente della sua catena di forniture, Timberland dovrebbe unire le forze con i suoi concorrenti nelle calzature e portare tutta la forza di mercato delle imprese a premere sui conciatori».

Matt Kistler, il vicepresidente senior della Wal Mart, è più ottimista:«Le grandi multinazionali hanno più capacità di stimolare l'innovazione pulita» e ha raccontato al meeting della Cig quello che è successo al suo ex amministratore delegato Lee Scott quando ha sfidato la General Mills per ridurre gli imballaggi dei loro prodotti «Il gigante alimentare passa dal formato di noodles a "riccio" a quello più facile dei noodles piatti nelle sue scatole di Hamburger Helper , riducendo la dimensione del packaging del prodotto di quasi di un terzo». Swartz non si è potuto trattenere: «Se stai cercando dell'ottimismo a New York, eccolo qui, baby!».

Ma alla fine e nonostante tutti i buoni propositi e le accuse alla politica inefficiente e poco visionaria, le company hanno ammesso di avere spesso le mani legate quando si tratta di agire per proteggere l'ambiente... e non per colpa del governo. La loro prima preoccupazione è quella di soddisfare i propri azionisti che, a meno che non siano come quelli del Sustainable investor network Ceres, sono più interessati ai dividendi aziendali immediati che all'impronta di carbonio delle loro imprese.

Lo stesso Kistler ha fatto notare che «Tutto quello che abbiamo fatto per la sostenibilità è stato molto buono per la nostra bottom line. Ma non sarà sempre così in futuro, quando ulteriori riduzioni delle emissioni diventeranno più difficili da ottenere e più costoso da realizzare. Le aziende non adotteranno misure che riducono la loro redditività se non saranno costrette dalla pressione dell'opinione pubblica o da più efficaci politiche governative».

Alla fine si ritorna al punto di partenza: i governi hanno più margine di manovra per prendere le necessarie decisioni difficili per prevenire un catastrofico  cambiamento climatico. Ma la politica è più preoccupata dal debito pubblico ed effettuare investimenti pubblici nell'energia pulita è sempre più difficile. Eppure i governi, a differenza delle aziende, sono responsabili di tutti i cittadini, non solo dei ricchi investitori. Ma per la politica marketing e a richiesta, come è diventata in gran parte quella delle democrazie occidentali, è difficile spiegare che il cambiamento climatico influirà su tutti e spiegare che bisogna fare dei sacrifici per garantire che questi effetti siano minimi e che varrebbero la pena di un debito aggiuntivo. La politica fa un calcolo sbagliato su se stessa quando dice che le emissioni di gas serra non possono essere tagliate con un accordo internazionale e alla lunga rischia di deludere i suoi elettori, soprattutto quando le conseguenze dei cambiamenti climatici diventeranno ancora più evidenti e i rimedi più difficili e costosi.

«Eppure, non ci sono spettatori innocenti per lo stallo delle politiche sul clima dell'America - ha ricordato Swartz della Timberland - Il governo negli Stati Uniti è, per citare il suo più grande Presidente, "of the people, by the people, for the people". E se i politici e le imprese falliranno nel regolamentare e proteggere il nostro clima, allora alla fine sarà colpa del popolo americano. Dobbiamo solo continuare ad accettare la mancanza di leadership ambientale del nostro governo con il sorriso sul viso. E alla fine della giornata ne saremo responsabili perché siamo cittadini che votano».

L'Un Dispatch conclude: «In parole povere, il business Usa lotterà per la leadership del clima e il governo non riuscirà ad emanare le regole interne o internazionali sulle emissioni fino a che tutti gli americani non lo chiederanno alle loro casse e nelle cabine elettorali».

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