[20/10/2010] News
Il blocco dei porti di Olbia e Portotorres operato dal Movimento dei Pastori Sardi nelle ultime settimane, ha rivelato ai Sardi quello che gli addetti ai lavori già conoscevano e molti sospettavano: molti prodotti sardi non sono fatti con materie prime isolane. Gli agnelli che si vendono in questo periodo sono siciliani, la bottarga è per il 97% fatta con baffe importate dal nord Africa, i culurgionis con fecola di patate olandese, le seadas con filate danesi o tedesche, la pasta, il pane, con grani e farine canadesi e ucraine; salumi con carni nazionali e comunitarie, il latte di capra in tetrapak di origine olandese.
Prodotti che diventano "sardi" per il fatto di essere macellati e confezionati in Sardegna. Il tutto in piena legalità. I trasformatori hanno il diritto di farlo, possono utilizzare materie prime che provengono da fornitori che garantiscono loro le condizioni migliori per le loro aziende. I prodotti finali, quelli che finiscono sui banchi dei mercati, sulla nostra tavola, possono essere dichiarati "sardi"? Una coscia di maiale tedesco, lavorata in Sardegna, a volte con una tecnica che non è della nostra tradizione, può diventare prosciutto di (qualsiasi paese famoso per la norcineria).
Una salsiccia, magari fatta con preparati industriali provenienti da dove si voglia, insaccata in uno stabilimento isolano, può essere considerata "sarda". In che cosa si differenzia da un prodotto industriale tedesco, olandese, venduto con qualsiasi marchio? Qui sta l'inganno. Il consumatore all'atto dell'acquisto crede di comprare un prodotto nostro, in realtà non sa cosa si porta in casa. Di quel prodotto non conosce niente se non le minime informazioni obbligatorie per legge. Ci si lamenta spesso che i mercati internazionali siano invasi da cibo con etichette false che ricordano gli alimenti italiani e sardi e poi i primi ad operare in questo modo siamo noi.
Eccetto che per la carne bovina e per i prodotti ortofrutticoli non esiste al tracciabilità degli alimenti. Il consumatore è privo di informazioni davanti al bancone, si deve fidare del macellaio o del salumiere, che a loro volta sanno poco dei prodotti che vendono. La comunicazione al consumatore della tracciabilità totale degli alimenti è sempre stata combattuta in sede nazionale ed europea dalle lobby dell'industria. Gli stessi marchi comunitari a volte non aiutano. Mentre le Denominazioni di Origine Controllata (DOP) garantiscono i produttori di materie prime, i trasformatori e i clienti finali, le Indicazioni Geografiche Protette (IGP) per i prodotti trasformati, sono utili solo dall'industria alimentare.
Le IGP a differenza delle DOP non dicono nulla sull'origine delle materie prime, si limitano a registrare una modalità di trasformazione e confezionamento dell'alimento che deve avvenire in un territorio delimitato e ad impedire che in altri luoghi venga usata quella denominazione. Si hanno così dei paradossi, ad esempio la Bresaola della Valtellina IGP, prodotta solo nella provincia di Sondrio, che di locale ci sarà, visti i volumi di vendita, meno dell'1 per cento della carne utilizzata. Il resto è fatto con cosce bovine che provengono da tutto il mondo. Ma questo il normale consumatore non lo conosce. Crede di comprare un prodotto territoriale, in realtà acquista solo una ricetta, una modalità di trasformazione.
Per le razze animali è diverso, si preferisce l'IGP alla DOP perché con quest'ultima dovrebbe esserci l'approvvigionamento dei mangimi fatto sul territorio indicato e non sempre è possibile. Con questo non si vuole affermare che l'IGP sia inutile, tutt'altro. Il punto nodale resta l'informazione del consumatore che dovrebbe sapere sempre che cosa acquista, soprattutto il cibo, visto che poi lo mangia. Lo stesso Consiglio Regionale della Sardegna con la legge n.1 del 19/01/2010 che riforma gli agriturismi, votata all'unanimità, ha perso un'occasione preziosa per fare chiarezza. All'art. 3, comma 5 dove si istituisce l'Elenco Regionale dei fornitori degli agriturismi, si limita a dire che esso " è costituito dai produttori e trasformatori operanti nel territorio regionale". Non una parola sull'origine delle materie prime. Andremo negli agriturismi e mangeremo porcetti spagnoli, prosciutti tedeschi, culurgionis olandesi e seadas danesi. Tutto questo mentre in Sardegna la crisi dell'agricoltura sta raggiungendo punti di non ritorno.
Il poeta contadino americano Wandell Barry sostiene che "Mangiare è un atto agricolo". Ogni volta che ci presentiamo al mercato decidiamo con l'acquisto quale agricoltura deve sopravvivere e quale deve smettere di produrre. Noi, spesso senza saperlo senza volerlo, stiamo decidendo che sia l'agricoltura sarda a scomparire, che siano i nostri agricoltori e pastori a chiudere le loro aziende. Non basta mostrare solidarietà al mondo agricolo partecipando alle loro manifestazioni, è meglio farlo tre volte al giorno, all'ora dei pasti.
Per fortuna però si registrano anche degli esempi virtuosi di costruzione di filiere, dove produttori e trasformatori si sono uniti e fanno della valorizzazione dei prodotti agricoli sardi il punto di forza delle loro politiche commerciali ed è bene citarli. Nel settore delle carni bovine: il Consorzio del Bue Rosso, quello della Melina e il Bovino Gallurese. Alcuni produttori di carasau hanno creato un consorzio che include i coltivatori di grano campidanesi, della Trexenta e del Sarcidano, un mulino per la trasformazione. Il risultato è un pane fatto con il lievito madre, di alta qualità nutritiva ed organolettica. Tutti i protagonisti della filiera hanno la giusta remunerazione e i consumatori un prodotto ottimo. Nella suinicoltura il consorzio Filiera del Suino Sardo, fatto da allevatori di maiali ha deciso di verticalizzare la produzione confezionando in proprio salumi derivati dagli animali allevati da loro.
Così come un trasformatore di Ploaghe che, oltre ad essersi inventato i salumi di pecora, ottenendo la certificazione Kosher per il mercato ebraico e quella Halal per quello islamico (con interessanti riscontri economici), ha aperto una linea per la trasformazione delle carni dei suini di razza sarda. Si stanno diffondendo i Mercati Contadini, dove i produttori vendono direttamente ai consumatori, così come nelle città i Gruppi di Acquisto Solidali che comprano direttamente dagli agricoltori. Una rivoluzione silenziosa.
Non basta. Occorre realmente che sul cibo, sulla salvezza della nostra agricoltura, si formi una grande alleanza che comprenda tutti gli attori della filiera: produttori, trasformatori, commercianti e consumatori. Tutti impegnati nella valorizzazione della nostra agricoltura. In questo la Regione deve svolgere con le sue politiche un'azione di stimolo. Certo, un assessore senza conflitti d'interesse gioverebbe.
La nostra sovranità alimentare, le fonti del nostro cibo, sono troppo importanti per essere lasciate sulle deboli spalle dei contadini e pastori. Ognuno di noi può contribuire ogni giorno, informandosi, esigendo un prodotto sardo. Anche i trasformatori, dichiarando l'origine dei loro prodotti, togliendo l'aggettivo sardo dalle etichette quando la materia prima non è locale. Un atto di trasparenza che i consumatori apprezzerebbero.