[27/10/2010] News
LIVORNO. Da Nagoya arrivano le prime reazioni sul preoccupante studio sull'estinzione dei vertebrati al quale hanno partecipato 174 autori, 115 istituzioni e 38 Paesi e che è stato possibile grazie al contributo volontario di oltre 3000 scienziati che hanno lavorato con la supervisione della Species survival commission dell'Iucn e di una partnership composta da BirdLife International, Botanic Gardens Conservation International, Conservation International, NatureServe, Royal Botanic Gardens Kew, Sapienza Università di Roma, Texas A&M University, Wildscreen, Zoological Society of London ed altre istituzioni scientifiche e Ong. I primi commenti arrivano naturalmente quelle delle associazioni ed istituzioni che sono anche partner della Lista Rossa dell'Iucn.
«Sappiamo quel che bisogna fare per salvare la tale o la talaltra specie dall'estinzione - ha detto Alison Stattersfield, responsabile scientifico di BirdLife che ha partecipato anche alla redazione dello studio - Nel quadro del Preventing extinctions programme di BirdLife, prendiamo misure efficaci e redditizie per gli uccelli in pericolo critico di estinzione. Bisognerà, però, raddoppiare gli sforzi e occorrerà che le Ong, il governi, le imprese e i volontari lavorino di concerto per ostacolare lo slittamento verso l'estinzione e cominciare ad attaccare l'erosione della biodiversità alla radice».
Per Sara Oldfield, segretaria generale di Botanic gardens conservation international, «Questo studio testimonia la riuscita delle misure di conservazione. Dimostra che se possiamo partire da Nagoya con una strategia di salvaguardia chiara e con le risorse per preservare il futuro delle piante, noi potremmo migliorare in maniera radicale lo stato di questo gruppo di specie che ha una così grande importanza culturale ed economica per l'intera società».
Un altro autore del rapporto, Andrew Rosenberg, vicepresidente senior per la scienza e la conoscenza di Conservation International, è convinto che « L'elemento critico della nostra analisi è il ruolo che gioca la conservazione della natura nel rallentare il processo di scomparsa delle specie. Questo significa che possiamo risolvere questo problema mondiale prendendo delle misure concertate a livello locale, nazionale e regionale».
Per la presidente di Nature Serve, Mary Klein, «Questa ricerca che farà epoca, prova che quando è condotta con dati precisi e sostenuta da un finanziamento sufficiente, la conservazione delle specie minacciate e dei loro habitat può essere efficace. Noi sappiamo quel che può e deve essere fatto per salvaguardare la biodiversità, è sufficiente raddoppiare gli sforzi».
Stephen Hopper, direttore del Royal botanic gardens Kew, mette l'accento su «Uno studio recente sulle piante, coordinato dal Kew ed al quale hanno partecipato diversi partner dell'Iucn, indica che un po' più di un quinto di tutte le specie di piante sono minacciate, che la maggioranza delle piante minacciate si trovano nelle regioni tropicali e che il processo che più le minaccia è la perdita di habitat indotta dall'uomo. Almeno il 29% delle conifere, che sono presenti in tutto il mondo, in quasi tutti I tipi di foreste, sono di fronte all'estinzione. Molte sono le specie "chiave" senza le quali l'intero ecosistema potrebbe naufragare, provocando l'estinzione di altre specie. Lo sfruttamento non sostenibile delle foreste e il disboscamento sono le cause principali. E' evidente che è importante proseguire e rafforzare le misure di conservazione su scala planetaria».
Uno degli autori del rapporto, Thomas Lacher Jr. del'università del Texas A&M, ha spiegato che «I risultati di questo studio suggeriscono che bisogna adottare un concetto più vasto e più completo della salvaguardia, che inglobi non solo le aree protette ma anche le migliori strategie di collaborazione con le comunità rurali e le popolazioni tradizionali per conservare la biodiversità, là dove le terresono utilizzate per la sussistenza. Il nostro approccio deve essere concertato».
Jonathan Baillie, direttore dei conservation programmes della Zoological Society of London, è convinto che «Questo documento prova che gli sforzi di conservazione della natura pagano. Dobbiamo subito rafforzarli per contrastare le minacce senza precedenti con le quali si confronta il mondo naturale».
«Per numerose specie l'orizzonte è ancora scuro ma questo rapporto testimonia gli effetti reali e preziosi che possono avere i lavori di conservazione - ha detto Harriet Nimmo la direttrice esecutiva di Wildscreen, una organizzazione che collabora con l'Iucn per migliorare l'immagine pubblica delle specie minacciate di estinzione - Dobbiamo ricollegare, urgentissimamente, i legami rotti con il mondo naturale e arriveremo a salvare le specie dall'estinzione solo comunicando la loro sorte, la loro importanza, il loro valore e il loro significato in maniera convincente».
La Lipu e Wwf chiedono che a Nagoya «L'Italia si faccia promotrice di un accordo di alto livello per la conservazione della natura e della biodiversità a livello mondiale. Dopo aver fallito l'obiettivo del 2010 di ridurre la perdita di biodiversità, i capi di governo sono ora chiamati a Nagoya ad adottare una nuova ambiziosa strategia per il 2020: far sì che ciascun Paese protegga il 20% del proprio territorio con aree protette. E indispensabile investire oggi sostanzialmente nelle aree protette in tutto il mondo - ovviamente a partire dal nostro Paese, ripristinando il taglio del 50% ai finanziamenti dei parchi nazionali - al fine di evitare costi ben maggiori nei prossimi anni a causa del mancato intervento. L'Italia faccia la sua parte».
Le due associazioni sottolineano che «Secondo uno studio di BirdLife International e Conservation International presentato pochi giorni fa, per espandere e gestire adeguatamente le aree protette il fabbisogno dei Paesi poveri ammonta a 15 miliardi di dollari all'anno, cifra che dovrebbe essere stanziata insieme da tutti Paesi "ricchi" del mondo. I più affermati economisti hanno inoltre calcolato che il mancato incremento degli sforzi per la conservazione della biodiversità ci costerà il 7% del Pil , entro il 2050, per non citare i conflitti sull'uso delle risorse, i rifugiati e l'instabilità politica che avrà luogo quando i nostri ecosistemi avranno raggiunto i "tipping points", ossia punti di non ritorno del collasso».