[26/11/2010] News
ROMA. La prossima settimana a Cancun, in Messico, avrà luogo la 16° Conferenza delle Parti sulla Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici. Come sappiamo, nonostante il Protocollo di Kyoto sia ormai vicino alla sua conclusione temporale (la "scadenza" dello stesso avrà luogo il 2012) la comunità internazionale è ben lontana dall'aver impostato le basi per approvare rapidamente, come l'urgenza dei cambiamenti climatici in atto richiederebbe, un nuovo Protocollo attuativo mirato a ridurre significativamente le emissioni di gas climalteranti in tutto il mondo, in primis da parte delle nazioni industrializzate o di nuova industrializzazione, con l'indicazione di percentuali di riduzioni importanti e tempi certi entro i quali raggiungerle.
Lo "stallo dei negoziati" ha visto il culmine nella scorsa conferenza delle Parti tenutasi un anno fa a Copenaghen. Una delle argomentazioni ben note mirate a non favorire passi in avanti nei negoziati può essere riassunta nella posizione che i paesi occidentali non devono procedere da soli alla riduzione delle emissioni se non le riducono gli altri paesi del mondo, soprattutto le nuove economie industrializzate che ormai immettono gas serra in una quantità superiore a tutti gli altri paesi. La Cina già nel 2005 ha superato i 7 miliardi di tonnellate di gas serra all'anno, il 19% del totale, ed è quindi il primo emettitore al mondo; l'India ha raggiunto quasi 2 miliardi di tonnellate ed è al quinto posto mentre il Brasile, un'altra delle economie di nuova industrializzazione, con un miliardo di tonnellate è il settimo emettitore del mondo. In genere questi paesi rifiutano la logica del siamo tutti inquinatori e quindi abbiamo tutti le stesse responsabilità. A supporto delle loro posizioni indicano i dati relativi alle emissioni pro capite: se calcolate non come valore assoluto, ma appunto come pro capite, ossia tenendo conto del numero di persone responsabili delle emissioni stesse, le emissioni di gas serra di questi paesi sono molto più basse. Ogni cinese e ogni brasiliano emettono circa 5 tonnellate di gas serra l'anno, ogni indiano circa 2. Ma le tonnellate di gas serra emesse ogni anno da uno statunitense medio sono 22, 10 quelle di un europeo. Non è facile per uno statunitense o un europeo chiedere a un indiano di ridurre le emissioni. È una questione molto spinosa, che deve essere affrontata valutando i diritti ad emettere gas serra dei paesi in via di sviluppo e che, credo, inevitabilmente vada considerata, prima o poi, nell'ottica delle disponibilità di uno "spazio ambientale", una "quota" di emissioni di gas serra pro capite concesso a ciascun essere umano presente sul Pianeta.
Inoltre le concentrazioni di gas serra oggi presenti nell'atmosfera del pianeta sono dovute a quanto è stato emesso negli ultimi secoli. Se consideriamo i tempi di permanenza della CO2 in atmosfera che sono molto lunghi, non conta solo la "fotografia" delle emissioni pro capite di un anno recente, ma l'intera situazione pregressa, cioè le emissioni degli anni passati.
Con questo approccio, i paesi industrializzati sono evidentemente sfavoriti. Infatti dal 1800 al 1950 le emissioni di paesi in via di sviluppo, o di paesi emergenti come Cina, India e Brasile, sono state molto inferiori alle emissioni dei paesi occidentali di quanto lo sono ora e di quanto lo saranno nei prossimi anni. Risulta comunque difficile decidere la data da cui calcolare le emissioni complessive di una nazione. Dalla rivoluzione industriale? Da quando si è avuta la chiara evidenza della realtà del problema dei cambiamenti climatici (indicando, ad esempio, una data come quella del 1990)? E' abbastanza evidente che precedentemente al 1990 non esisteva certamente la quantità di prove scientifiche chiare e convergenti sulla gravità degli effetti derivanti dalla crescita della CO2 nell'atmosfera: i decisori politici di allora, e chi li aveva eletti, non possono essere considerati responsabili quanto gli attuali per non aver intrapreso azioni per contrastare l'aumento delle emissioni di gas serra.
Lo splendido volume "Tempeste. Il clima che lasciamo in eredità ai nostri nipoti, l'urgenza di agire" (pubblicato da pochi mesi in italiano da Edizioni Ambiente) del grande climatologo James Hansen, professore alla Columbia University e direttore del prestigioso Goddard Institute for Space Studies (GISS) della NASA, è veramente una guida straordinaria alla migliore comprensione dei cambiamenti climatici in atto. Abbiamo avuto modo di parlarne, in questa rubrica nel febbraio scorso, quando ho invitato Jim Hansen a tenere l'Aurelio Peccei Lecture del 2010.
Hansen è sicuramente una delle figure più significative nel panorama della climatologia mondiale e le sue ultime ricerche di paleoclimatologia, dedicate particolarmente al cosidetto PETM (Paleocene Eocene Thermal Maximum, massimo termico del Paleocene- Eocene) di circa 55 milioni di anni fa, lo hanno condotto ad individuare il limite massimo di 350 parti per milione di volume (ppmv) il livello di concentrazione di CO2 nella composizione chimica dell'atmosfera terrestre (oggi siamo a 392 ppm). Come sappiamo il noto scrittore ed ambientalista Bill McKibben ha organizzato un movimento mondiale con l'indicazione di questa soglia (vedasi il sto www.350.org ).
Dalle ricerche di Hansen e di altri climatologi sul valore appropriato da porre come limite al biossido di carbonio in atmosfera emerge una conclusione semplice, chiara ed urgente: le emissioni legate al carbone devono ridursi il più rapidamente possibile o avremo la certezza matematica che si verificheranno disastri climatici globali. La motivazione di questa affermazione è semplice. Ma, come ricorda Hansen nel suo libro, sarà chiara a coloro che devono essere informati, vale a dire l'opinione pubblica ed i politici?
Scrive Hansen : «La gente e i politici pensano di dover ridurre il loro consumo di combustibili fossili, o perlomeno di dover ridurre la velocità di crescita del loro tasso di utilizzo. Per esempio, potrebbero decidere di acquistare un'auto con minori consumi, di sostituire le lampadine di casa, di aumentare l'isolamento della loro abitazione e così via. Oppure, se ridurre le proprie emissioni non risultasse conveniente, penano di potersi comprare delle "compensazioni" - cioè potrebbero dare dei soldi ad altre persone perché riducano le loro emissioni. Il pianeta ne uscirebbe bene, giusto ? Sbagliato. Il problema è che la riduzione delle emissioni, di per sé, non fa quasi niente. Il motivo è che il tempo di permanenza dell'anidride carbonica liberata nel sistema atmosfera-oceano si misura in millenni. Quindi non fa molta differenza se il combustibile fossile viene bruciato quest'anno o l'anno prossimo. L'efficienza energetica è certamente una parte essenziale della soluzione al riscaldamento globale, ma deve essere parte di un approccio strategico che faccia in modo che la maggior parte dei combustibili fossili rimanga nel sottosuolo».
Continua Hansen : «Perché la maggior parte della nostra energia continua ad essere ricavata dai combustibili fossili ? La ragione è semplice. I combustibili fossili sono l'energia meno costosa. Ciò è in parte dovuto alla loro meravigliosa densità energetica e all'intricato sistema di infrastrutture legato al loro uso. C'è però un'altra ragione: i combustibili fossili sono i più economici perché non teniamo conto dei loro effettivi costi per la società. Gli effetti dell'inquinamento atmosferico e idrico sulla salute umana sono sostenuti dai cittadini. Anche i danni prodotti dai cambiamenti climatici ricadono sui cittadini, ma saranno sostenuti principalmente dai nostri figli e nipoti. Come possiamo risolvere il problema? La soluzione dovrà necessariamente comportare un aumento dei prezzi dell'energia prodotta con i combustibili fossili».
I problemi sul tappeto a Cancun sono veramente numerosi. E' urgente e necessario un vero e proprio "colpo d'ala" altrimenti la situazione rischia di diventare sempre di più ingovernabile.