
[27/01/2011] News
LIVORNO. L'incubo degli eterni leader moderati tanto cari all'occidente, presentatosi con la sottovalutata rivoluzione dei gelsomini tunisina, si sta concretizzando là dove rischia di essere più devastante: l'Egitto. La rivolta per il pane egiziana è in realtà contro un regime, quello di Hosni Mubarak (al quale il nostro premier aveva tentato di caricare sulle spalle anche una "nipotina") che è il fresco vincitore delle ennesime elezioni col trucco.
Uno sviluppo della situazione che terrorizza i nostri complici governi ma che è seguito con molta attenzione dagli iraniani, rimasti forse delusi dalla piega "laica" subito presa dalla rivoluzione tunisina. Secondo la radiotelevisione iraniana Irib il poliziotto e il manifestante morti ieri negli scontri nel quartiere cairota di Bulaq Abu Ela sono il frutto di scontri sempre più vasti e che si stanno estendendo: «A Suez la gente ha aggredito le forze di sicurezza con bombe Molotov incendiando alcuni edifici governativi. La sede del partito al potere guidato da Mubarak è stata occupata e incendiata; scontri anche ad Alessandria. Migliaia di egiziani continuano a manifestare nelle strade delle città nelle più grandi proteste che il presidente a vita Mubarak ricorda nei suoi 30 anni di governo. La gente ha ignorato completamente la legge marziale imposta dal Ministro dell'Interno che aveva tentato invano di intimidire i dimostranti».
La simpatia per i manifestanti è evidente e non a caso gli iraniani citano il sito del maggiore partito di opposizione, i Fratelli Musulmani (illegali): «Le proteste proseguiranno anche oggi. Intanto il figlio di Mubarak, Jamal e sua moglie sono scappati dal Paese rifugiandosi a Londra».
Anche in Egitto come in Tunisia la fine della dittatura mascherata da democrazia sembra segnata dalla fuga del rampollo destinato alla successione, che solleva ironie e scandalo quando avviene in Corea del nord, ma è amichevolmente compresa quando riguarda regimi dinastici che tengono lontani gli islamisti dal potere. Che poi gli islamici siano diventati l'unica opposizione vera in Egitto perché il prudente occidente ha dato una mano prima a Sadat e poi a Mubarak a creare uno Stato di polizia che ha fatto fuori i nazionalisti nasseriani ed i partiti della sinistra, è un'altra cosa che svela la lungimiranza con la quale abbiamo puntato su dittatori che ci assicurassero la loro obbedienza e buoni rapporti con Israele.
Il giochino sembra finito e la rivoluzione tunisina sembra aver aperto un vaso di Pandora dal quale non uscirà solo il profumo dei gelsomini. Craxi, Andreotti, Prodi e Berlusconi non avrebbero mai pensato che il deposto presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali avrebbe avuto lo status di "Wanted" e che l'Interpol, che fino a ieri faceva finta di non vedere i traffici della sua cricca con mafiosi e imprese straniere, emettesse contro un mandato di cattura internazionale contro di lui ed alcuni membri della sua famiglia accusati di essersi appropriati abusivamente di fondi appartenenti allo Stato, come ha spiegato il nuovo ministro della giustizia di Tunisi Lazhar Karoui Chebbi. I tunisini sanno che il bottino di Ben Ali e famiglia si trova in Francia e che probabilmente la sua cricca ha pesanti conti in banca in Italia. Intanto nel piccola Paese mediterraneo continuano le proteste pure contro il governo ad interim, inviso alla popolazione per la presenza al suo interno di esponenti del vecchio regime, l'opposizione preme per elezioni davvero libere e senza la tutela italo-francese e sono sempre di più quelli che danno segnali di discontinuità: l'ambasciatore tunisino in Giappone si è dimesso in segno di solidarietà alla gente.
Ma la vera bomba innescata da tempo è l'Egitto. Il possibile crollo, probabilmente nel sangue e con esiti imprevedibili dal punto di vista politico, del Paese arabo più importante e popoloso preoccupa non poco il mondo. La reazione di una di quella che di fatto è una dittatura militare potrebbe avere un esito molto diverso da quello tunisino, infiammando davvero la sponda sud del Mediterraneo ed aprendo la strada a Repubbliche islamiche che controllerebbero il gas ed il petrolio e il cuore del potere del mondo arabo.
L'unica strada percorribile per l'occidente è quella della democrazia, ma sarà difficile percorrerla, perché l'abbiamo seminata del nostro vergognoso appoggio a regimi di torturatori e cleptomani.
Ieri è intervenuto direttamente il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon che si è appellato a tutti perché garantiscano che «La situazione in Egitto non conduca a maggiori violenze ed incoraggi le autorità a vedere questo come un'opportunità per rispondere alle legittime preoccupazioni della popolazione». Il problema è che quei regimi non sono costituzionalmente attrezzati a farlo e che sono invece nati per reprimere quelle legittime istanze.
L'annunciata frana del regime senile di Mubarak provocherà uno tsunami politico di grande portata che si infrangerà anche sulla costa nord del Mediterraneo ed attraverso lo Stretto di Gibilterra raggiungerà perfino gli Usa, da sempre garanti del loro fedele alleato che ha tradito il panarabismo socialista nasseriano. Per non parlare delle onde d'urto che la sua caduta potrebbe creare nella penisola araba, dove lo Yemen è già in fiamme.
Le teocrazia di Teheran guarda interessata ad una rivoluzione che le ha già consegnato il libano, che sta terremotando il regno hascemita della Giordania e che soprattutto potrebbe consegnare ai Fratelli Musulmani il pesce più grosso di tutti: l'Egitto di Mubarak da sempre additato come traditore per la pace con Israele e per aver lasciato Gaza e i palestinesi al loro destino di prigionieri in un inferno in terra che, proprio per questo, è finito nelle mani "sante" di Hamas.
I conti però potrebbero non tornare, come non tornarono per l'Occidente ed i democratici quelli della rivoluzione iraniana trasformata in Stato clericale... Quando la rivolta è del popolo a volte prende strade impensate, è successo in Tunisia e potrebbe succedere anche altrove: il popolo potrebbe volere davvero la libertà di espressione e politica e la giustizia sociale, due cose che la rivoluzione iraniana non ha garantito.