[28/01/2011] News

Alla ricerca (e allo studio) di una macroeconomia ecologica (2)

ROMA. La scorsa rubrica (vedi link) ho lasciato a metà il riassunto dei punti che il noto economista Tim Jackson (Nella foto) elenca, come elementi significativi sui quali costruire una nuova economia, nel suo ottimo volume "Prosperity Without Growth" (edito da Earthscan e di cui, entro marzo, sarà disponibile l'edizione italiana pubblicata da Edizioni Ambiente). Ci eravamo lasciati con il punto 4 e proseguiamo con i successivi.

Negli ultimi vent'anni la crescita economica si è basata sui consumi materiali basati sull'indebitamento e per sostenerli, ci ricorda Jackson, siamo giunti a destabilizzare la macroeconomia, contribuendo all'attuale crisi globale economico-finanziaria. Sta fortunatamente crescendo un consenso generale rispetto alla necessità di inaugurare una nuova epoca di prudenza finanziaria e fiscale, e molte proposte importanti sono già state discusse a livello internazionale. Tra di esse vale la pena citare la riforma della regolamentazione dei mercati finanziari nazionali e internazionali; la messa al bando di pratiche di mercato incaute e destabilizzanti (come le vendite allo scoperto); la riduzione (o la commisurazione alla performance) dei premi elargiti ai dirigenti; le azioni volte a contrastare l'eccessivo indebitamento privato e a favorire il risparmio. E' importante anche la cosiddetta "Tobin tax", concepita dal premio Nobel per l'economia James Tobin, come meccanismo per ridurre l'effetto potenzialmente destabilizzante delle fluttuazioni valutarie, ma che è stata proposta anche per limitare la mobilità del capitale in generale o per finanziare lo sviluppo dei paesi emergenti (ridistribuendo le entrate fiscali sotto forma di aiuti).Per stabilizzare i mercati finanziari si è ipotizzato anche di aumentare il controllo dello stato sull'offerta di denaro. Le banche devono mantenere una quota delle proprie risorse economiche sottoforma di riserva per prudenza: maggiore è tale quota, maggiore risulta essere il grado di prudenza.

•6.      Rivedere la contabilità nazionale

Il PIL in pratica è una misura che somma quanto spendono e risparmiano i consumatori, oppure il valore aggiunto prodotto dalle attività economiche. Ma numerosi studi dimostrano la sua inadeguatezza come misura utile anche solo per valutare il benessere economico. Tra le altre cose il PIL non tiene conto della possibile variazione degli asset, né del minor benessere dovuto a una distribuzione disomogenea dei redditi; non valuta l'esaurimento delle risorse materiali e di altre forme di capitale naturale, non considera le esternalità dovute all'inquinamento e ai danni ambientali di lungo periodo, e ignora il costo di criminalità, incidenti stradali, incidenti sul lavoro, frammentazione della famiglia e altri fenomeni sociali negativi. Infine non comprende alcun fattore di correzione per le spese difensive e posizionali, e non misura affatto i servizi che non rientrano nelle logiche di mercato, come il lavoro domestico e il volontariato.

Le critiche al PIL hanno ormai conquistato una certa credibilità e ne abbiamo parlato più volte nelle pagine di questa rubrica, attirando molta attenzione nel corso degli anni. Si è tentato più volte di costruire un indicatore modificato che potesse dare risultati migliori; per esempio il risparmio netto rettificato della Banca Mondiale, la misura del benessere economico di Nordhaus e Tobin, e l'indice del benessere economico sostenibile di Daly e Cobb. L'iniziativa Beyond GDP voluta dalla Commissione Europea, dal parlamento Europeo, dal WWF, dal Club di Roma e dall'OCSE sta provando di mettere a sistema questi tentativi e di promuoverli adeguatamente (vedasi www.beyond-gdp.eu) , come anche il lavoro della Commissione internazionale sulla misura della performance economica e del progresso sociale (vedasi www.stiglitz-sen-fitoussi.fr) voluta dal presidente francese Sarkozy con ben 5 Premi Nobel per l'Economia tra i suoi membri (come Joseph Stiglitz ed Amartya Sen). I tempi sono ormai maturi per sviluppare una contabilità nazionale in grado di dare una misura più adeguata della performance economica.

7. Politiche sull'orario di lavoro

Jackson ricorda che ci sono due motivi particolarmente importanti per cui la politica sull'orario di lavoro è significativa nel dare vita a un'economia sostenibile. Il primo è che il numero di ore che le persone passano al lavoro è connesso in modo diretto (attraverso la produttività del lavoro) all'output. Per essere più precisi, l'output è dato dal numero di ore lavorate moltiplicate per la produttività del lavoro. Se ipotizziamo che la produttività aumenti ma l'output sia sottoposto a un tetto (per esempio per motivi ecologici), l'unico modo per mantenere la stabilità macroeconomica e lasciare agli individui mezzi di sussistenza sufficienti è dividere le ore di lavoro complessive tra più persone. Questa è una soluzione che viene adottata spesso, su scala ridotta, durante i periodi di recessione.

Il secondo motivo è che la riduzione dell'orario si può considerare di per sé un vantaggio. Ironicamente, alcuni credono che farebbe aumentare la produttività (e fu questa la logica dietro l'esperimento francese delle "35 ore" a settimana, che doveva dimostrare che chi passa meno tempo al lavoro è più produttivo nelle ore di presenza perché è più riposato, attento e in forma).

Per ridurre l'orario "d'ufficio" a favore di un miglior equilibrio tra vita e lavoro si potrebbero implementare delle politiche specifiche che prevedano: maggiore flessibilità di orario; misure contro la discriminazione dei lavoratori part-time in termini di selezione, carriera, formazione, sicurezza d'impiego e paga; miglior trattamento dei dipendenti (e maggiore flessibilità da parte dei datori di lavoro) in caso di impegni personali, maternità o paternità e periodi sabbatici.

8. Affrontare le ingiustizie

Le disparità di reddito radicate nel sistema aumentano il livello di ansia, minano il capitale sociale ed espongono le famiglie più povere a maggiori rischi di malattia e insoddisfazione. Le prove che dimostrano come le disuguaglianze abbiano effetti negativi sia sulla salute sia sul benessere sociale di ogni tipo di popolazione sono sempre di più. Affrontare queste iniquità permetterebbe di ridurre i costi sociali, migliorare la qualità della vita e cambiare la dinamica dei consumi utili solo ad affermare il proprio status. Non si è ancora fatto abbastanza per invertire il trend di lungo periodo che tende a far crescere le disparità di reddito; questo si verifica soprattutto nelle economie di mercato liberali, nonostante esse prevedano ormai da molto tempo politiche e meccanismi per ridurre le disuguaglianze e ridistribuire la ricchezza.

Tra le possibili azioni da adottare Jackson ricorda: la revisione della struttura delle imposte sul reddito, la definizione di livelli minimi e massimi di reddito, il miglior accesso a istruzione di qualità, le leggi antidiscriminazione, le misure contro la criminalità e la valorizzazione dell'ambiente locale nelle aree degradate. Ormai questo tipo di politiche sono sempre di più di fondamentale importanza.

 

9.  Misurare le capacità e la felicità umana

E' necessaria una valutazione sistematica delle capacità di essere felici che le persone hanno in tutto il paese (e nei diversi segmenti demografici). Tale valutazione dovrebbe concentrarsi in modo specifico sulla misura di "variabili risposta" della felicità umana quali la speranza di vita, il tasso di partecipazione scolastica, la fiducia, la resistenza della comunità agli impatti e la partecipazione alla vita della società.

Sono già state fatte numerose proposte per ottenere questo tipo di risultati. Anche le ipotesi di sviluppare una contabilità del benessere attingono a questa logica del "misurare quel che conta davvero". Un passo ulteriore potrebbe essere rappresentato dall'integrazione sistematica di tale contabilità nel quadro di quella nazionale esistente, magari facendo in modo che i conti di matrice economica riflettano le variazioni in quelli relativi alla felicità.

10. Rafforzare il capitale sociale

Consapevoli che la prosperità dipende in parte dalla nostra capacità di partecipare alla vita della società, non possiamo non soffermarci sulle risorse umane e sociali che tale partecipazione richiede. Creare comunità sociali resilienti e resistenti è più importante che mai di fronte agli shock economici. La forza della comunità può fare la differenza tra disastro e trionfo di fronte al tracollo economico.

Serve un gran numero di politiche per aumentare il capitale sociale e rafforzare le comunità. Occorre, tra le altre cose, creare e proteggere spazi pubblici condivisi, incoraggiare le iniziative a favore della sostenibilità che nascono dal basso, ridurre la mobilità geografica dei lavoratori, offrire formazione per i lavori "verdi", facilitare l'accesso alla formazione continua, delegare alle comunità maggiori responsabilità in materia di pianificazione e proteggere le emittenti di servizio pubblico, i musei, le biblioteche, i parchi e gli spazi verdi.

11. Smantellare la cultura del consumismo

Il consumismo in parte si è sviluppato come mezzo per proteggere la crescita economica basata sui consumi, ma promuove una competizione sterile per l'affermazione dello status e può avere effetti sociali e psicologici dannosi sulle persone. La cultura consumistica è trasmessa da istituzioni, media, norme sociali e da una pletora di segnali, velati o meno, che incoraggiano la gente a esprimersi, cercare un'identità e trovare il significato della propria vita attraverso beni materiali. Per smantellare questa complessa struttura di incentivi sarà necessario non abbassare mai la guardia di fronte alla miriade di modi in cui essa viene costruita.

La cosa più ovvia è che ci sarà bisogno di regolamentare in modo più stringente i media commerciali, con particolare attenzione al ruolo della pubblicità mirata ai bambini. In molti paesi, tra cui per esempio Svezia e Norvegia, è vietato trasmettere in TV pubblicità destinata a bambini sotto i 12 anni. In altri casi sono state create zone protette dove gli spazi pubblici non possono essere invasi dai messaggi commerciali, come quella istituita dalla "Legge Città Pulita" a San Paolo in Brasile. Una terza strategia può essere quella di sostenere i media di servizio pubblico con finanziamenti governativi sistematici. Inoltre si potrebbero migliorare le prassi commerciali in modo da proteggere i cittadini in qualità sia di lavoratori sia di consumatori. Il commercio equo e solidale dà un ottimo esempio dei risultati che le imprese possono raggiungere grazie ad azioni spontanee in questa direzione, ma non è abbastanza diffuso da proteggere gli standard etici ed ecologici lungo tutte le catene di distribuzione; inoltre non può garantire che le persone acquisiscano consapevolezza delle questioni che combatte e modifichino le proprie abitudini di acquisto di conseguenza.

Gli standard di mercato dovrebbero anche considerare la durata dei beni di consumo: l'obsolescenza programmata e percepita è una delle piaghe della società usa-e-getta, e mina i diritti e gli interessi legittimi di consumatori e cittadini.

Dipanare la cultura del consumismo e cambiare la sua logica sociale, ricorda Jackson, richiederà uno sforzo consistente e metodico, quanto quello che in passato ci ha permesso di consolidare questo modello. è importante notare però che non si tratterà solo di una serie di rinunce: si dovranno offrire alle persone anche alternative realistiche allo stile di vita consumistico, incrementando la loro capacità di essere felici in modi meno materialistici.

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