[21/02/2011] News
LIVORNO. Abbiamo avviato, nei giorni scorsi, una serie di interviste iniziate con quella a Carla Ravaioli (nella foto) che prendevano spunto da un'indagine di Eurispes sui consumi degli italiani, per allargarsi al tema della crescita e del suo rapporto con l'ambiente. Cercando di effettuare un primo punto sulla discussione che si è aperta, è possibile ridurre a tre tipologie principali le reazioni ad una proposta di «sviluppo senza crescita».
La prima, e forse la più diffusa, è quella che, nei fatti, nega il collegamento tra problemi ecologici globali e modello economico: non c'è sviluppo possibile senza crescita economica. E più precisamente, senza crescita del Pil. Dunque, il problema prioritario delle ineguaglianze sociali può essere affrontato solo attraverso un costante aumento dei beni materiali prodotti. In questo quadro i vincoli ambientali vanno certo tenuti in conto, ma subordinati alla priorità assoluta della crescita
La seconda posizione (già minoritaria) non ignora la correlazione tra crisi ecologica ed economia, ma non ritiene che ci sia bisogno di un cambiamento del modello di sviluppo. Molti economisti attenti ai problemi dell'ambiente (vedi Missaglia) propongono la «crescita compatibile»: non fermare la crescita, ma unirla ad una compatibilità con l'ambiente resa possibile dalla diminuzione dell'intensità di materia e dell'intensità di energia utilizzata per unità di prodotto. I fautori di questa posizione sostengono che il consumo di materia stia diminuendo: ci avvieremmo (o è possibile avviarci) verso una economia immateriale e quindi avremo lo sviluppo senza crescita indirizzando il mercato senza bisogno di rivoluzionare il modello economico.
La terza posizione sostiene, invece, che la necessità di cambiare il modello economico è inderogabile. Perché il mercato è cieco ed una economia che si affida, principalmente se non essenzialmente, senza progetto, agli istinti del mercato, anche incentivato verso le produzioni più sostenibili, produce, forse, più ricchezza, ma anche insostenibilità. La diminuzione dell'intensità di materia e di energia infatti è tale solo per unità di prodotto. E siccome la quantità di prodotti totale è in continuo aumento, la diminuzione dell'intensità non è sufficiente a rendere ecologicamente sostenibile la crescita economica. Ne deriva che l'aumento della produzione e dei consumi (o meglio, degli acquisti), come conseguenza della saturazione dei mercati e della spinta alla sostituzione di prodotti «non consumati», sta determinando un aumento della quantità di materia e di energia totali usati dall'uomo, e quindi di rifiuti (parlare di diminuzione di rifiuti, in termini assoluti, in questa fase storica è pura ideologia, ma questa è un'altra storia).
Un'altra considerazione che emerge è che il modello fondato sul valore del mercato mostra la sua incapacità di redistribuire in modo equo la ricchezza, di recuperare l'insostenibilità sociale della crescita. Non a caso, spesso, vengono citati i rapporti Onu-Undp dove si evidenzia che le differenze fra ricchi e poveri non sono mai state così marcate. Come dice Gesualdi (ma anche l'insospettabile Stiglitz) mai, prima d'ora, singole persone hanno avuto a disposizione così tanto. E mai, prima d'ora, sterminate moltitudini hanno avuto così poco: le 200 persone più ricche del pianeta dispongono di più risorse dei 2 miliardi di persone più povere.
E' qui il vero, inconfutabile, argomento che differenzia destra e sinistra: a destra, la crescita economica è un totem indiscusso, a sinistra la discussione che finora ha colorato la sfera culturale lambisce quella politica (quella amministrativa ancora no).
Non è che siamo molto in anticipo, visto che è datato ormai di 29 anni il discorso di Enrico Berlinguer agli intellettuali sull'austerità (scaricabile nella sezione «documenti» del nostro giornale). Anche per questo greenreport cercherà di continuare ad alimentare la discussione.