
[29/09/2010] News
LIVORNO. Tre indizi, si dice, fanno una prova. In realtà gli indizi sarebbero molti di più, ma se ci limitiamo all'oggi giornalisticamente parlando Repubblica e Sole24Ore disvelano una realtà (per noi) insindacabile: senza una governance mondiale che affronti, togliendo un po' di sovranità a tutti gli Stati, le crisi in atto, la sommatoria delle singole risposte degli Stati stessi vale zero.
Confessando subito di avere non pochi problemi nel comprendere fino in fondo una materia complessa come quella della politica monetaria, stiamo a quello che scrive oggi Martin Wolf sul Sole e che parla senza mezzi termini di una "guerra" in atto con « gli Usa cercano di inflazionare la Cina e la Cina cerca di deflazionare gli Usa. Gli uni e gli altri sono convinti di avere ragione, nessuno dei due riesce a fare quello che vorrebbe e il resto del mondo paga le conseguenze». Per concludere che serve una pax monetaria ma che « Per arrivarci servirà non soltanto una volontà collaborativa che al momento sembra tragicamente latitare, ma anche una maggiore inventiva sulle riforme da introdurre a livello nazionale e internazionale. Mi piacerebbe essere ottimista. Ma non lo sono: un mondo in cui ogni paese bada a scaricare sugli altri il peso della crisi difficilmente può andare incontro a un lieto fine».
Si tratta del primo indizio. Il secondo arriva sempre da Oltreoceano e riguarda la legge, bocciata per il momento negli Usa, per fermare le delocalizzazioni. L'ha proposta il Governo ed è stata respinta dai repubblicani. Ma di cosa si tratta? Come dice Repubblica «il disegno di legge anti-delocalizzazioni contiene tre parti. La prima cancella la deducibilità fiscale delle spese di produzione, se i salari vengono pagati all´estero: è dunque di fatto l´equivalente di un aumento d´imposta sulle filiali estere. La seconda parte è una vera e propria tassa addizionale su ogni merce reimportata dall´estero, se in precedenza lo stesso bene veniva prodotto negli Stati Uniti. Il terzo componente, ovvero "la carota", è un´esenzione biennale dall´imposta sui salari, per ogni attività che le multinazionali ri-trasferiscono sul territorio americano».
Si tratta di una legge evidentemente protezionistica e anche comprensibile in quanto - come si sostiene sempre su Repubblica - «Tassare le multinazionali che delocalizzano è un´idea popolare, in una fase in cui non si vedono schiarite sul mercato del lavoro». Ma il punto è che in un mondo dove sono i consumatori ad essere globalizzati disincentivare in un solo Stato, anche se importantissimo come gli Usa, le delocalizzazioni si ottengono risultati risibili. E questo vale anche per chi vede in questo la panacea di tutti i mali economici anche in Europa. L'economia è spinta dallo shopping e questo non ha confini. Inoltre innalzare muri - come dice Benjamin Barber - anche commerciali come appunto quelli suddetti, equivale solo a peggiorare i rapporti tra i lavoratori: il contadino francese vedrà nel contadino nigeriano un avversario, mentre i sussidi della Francia impediscono all'agricoltura nigeriana di competere con i prodotti esteri persino all'interno dei propri confini nazionali.
E questo vale per qualunque forma di regolamentazione anche dei mercati finanziari, che si può e si deve fare ma sempre a livello globale come almeno in teoria sembra aver capito il solo Sarkozy. La via del protezionismo Usa non è la strada da percorrere, dunque, e la prendiamo solo come un voler mettere qualche zeppa alle ruote dell'auto ferma in salita - leggi emorragia di posti di lavoro - in attesa però che il motore riparta. E per ripartire, oltre ad aver bisogno di carburante (anche culturale), deve aver ben chiara la direzione dove andare oltre alla montagna che sta scalando.
Da segnalare poi un'altra singolarità: i repubblicani Usa accusano Obama di non fermare le merci cinesi e di non difendere le industrie nazionali e poi votano contro perché sono per il libero commercio e l'iperliberismo, ma soprattutto per difendere gli interessi all'estero delle multinazionali americane che della delocalizzazione hanno bisogno... Se la globalizzazione ha messo in confusione la sinistra, ora sembra dover essere la destra a fare i conti con le contraddizioni che ha scatenato.
E si arriva così il terzo indizio di giornata. Direttamente dal sociologo industriale Alain Touraine che scrive: «l´Europa si ritrova senza un modello di sviluppo, senza un progetto per il suo futuro», «Eppure non sarebbe impossibile. Conosciamo fin d´ora le grandi priorità del secolo a venire: gli ecologisti ci hanno convinto della necessità di far convergere i diritti dell´economia con quelli della natura; alcuni movimenti culturali ci hanno insegnato che occorre non solo portare al governo la maggioranza, ma anche rispettare i diritti delle minoranze. Le donne, su un piano più privato che pubblico, hanno iniziato a costruire una società il cui principale obiettivo è riconciliare gli estremi opposti, dando la priorità all´integrazione interna e non alla conquista esterna».
Poi però aggiunge: «Ma questi grandi progetti hanno più forza presso l´opinione pubblica che in seno ai governi. Siamo troppo consapevoli delle disastrose conseguenze delle idee spengleriane sul declino dell´Occidente, che a suo tempo alimentarono la politica nazista, per riesumare quell´espressione; ma in un mondo in crescita, con nuove grandi potenze in via di formazione, la stagnazione, se non il regresso dell´Europa rappresenta un dato di fatto». Ecco, preso atto del declino in corso, l'idea della governance mondiale resta l'unica via percorribile, per quanto difficile. Ci sono troppe questioni che non si possono risolvere singolarmente e solo in Occidente. Tutti i Paesi devono fare un passo indietro, per farne il prima possibile uno gigantesco ma tutti insieme in avanti.