
[01/10/2010] News
Giusto un paio di giorni fa un lancio di agenzia serale allarmava mezzo mondo con la notizia che in Messico le piogge torrenziali avevano spazzato via 300 case di un paesino e almeno altrettante vite. Il secondo lancio faceva salire il bilancio delle vittime fino a mille. Il Sole24Ore, per fare un sol esempio, il giorno seguente ha messo la notizia in prima pagina. Ma già nella prime ore del mattino, quando orma i quotidiani cartacei erano già belli e che stampati, la tragedia cominciava a ridimensionarsi. Da mille morti a otto vittime accertate. Poi addirittura nessun morto, fino all'ultimo bollettino che parla di 11 persone disperse. Premesso che è un fatto drammatico anche la morte di una sola persona, è chiaro che qualcosa non ha funzionato e questa "notizia fantasma" non gioca a favore della credibilità della stampa stessa, oltre a pericolosamente far credere alla gente che le tragedie del sud del mondo sono amplificate o sminuite ad arte.
Partiamo da qui perché tra i tanti spunti che si trovano tra le 500 pagine dell'ultima fatica di Barber, quello relativo al tempo e alla velocità - declinati su shopping e informazione - è tra i più notevoli almeno dal nostro punto di vista. Si dirà: che c'entra l'informazione con i consumi? C'entra eccome. Spiega infatti Barber che «con l'idea (moderna, ndr) di aver vinto il tempo, arriva anche l'illusione di vincere la morte, non solo per i presunti miracoli della chirurgia estetica e le promesse di immortalità della crionica, ma grazie anche alla liberazione totale del tempo che deriva dall'istantaneità: il cambiamento istantaneo continuo, un cambiamento talmente veloce da bypassare tutte le tappe e bruciare gli stop che potrebbero segnalare l'avvicinarsi della morte».
Ed ecco il link: anche lo shopping ha qualcosa dell'illusione che il tempo possa fermarsi o scomparire del tutto; niente orologi nei centri commerciali (o nelle sale da gioco), luoghi in cui i venditori si augurano che i clienti possano avere la sensazione che il tempo si sia fermato mentre fanno acquisti o giocano d'azzardo. Nei fast food, lo dice già il nome, mangiare diventa un gesto quasi istantaneo. Barber cita un trio di eminenti sociologi che sostengono: «il consumo cospicuo scaturisce dalla paura della morte; "shop till you drop", spendi fino a quando non cadrai esausto, che diventa un motivo di vanto e al tempo stesso un promemoria di cosa può accadere se mai dovessimo smettere di fare shopping». Anche per Barber, quindi, siamo ormai passati oltre al consumismo e ai consumi indotti per arrivare all'attuale shopping fine a se stesso.
Non solo, oggi come detto siamo nell'era dove anche l'intelligenza viene misurata proprio sulla velocità e l'istantaneità. Mentre un tempo - ricorda Barber - l'intelligenza era equiparata al buon senso e all'uso intenzionale del tempo, oggi troppo spesso l'intelligenza ha a che fare con l'essere veloci. Vedi i test universitari a tempo per fare un esempio.
Ma appunto la velocità di oggi è quella che ti permette di comprare su e-bay una spada magica o un appezzamento di terra per centinaia di dollari comodamente da casa e interamente costituiti solo da un codice digitale. Eludendo così tempo e fatica. Cosa che per Barber fa della nuova tecnologia: uno strumento inutile che ti permette di guadagnare tempo - per eludere il tempo stesso - e con le ore "risparmiate" arrivare subito alla vittoria o precipitarsi a fare altro shopping.
Si dirà ora: va bene, ma che c'entra con la notizia del Messico? Centra eccome. Perché «in nessun altro ambito la corsa l'accelerazione del tempo è più evidente che nel dominio dell'informazione». Se una notizia è un fatto nuovo, nell'era moderna le sole notizie sono le "ultimissime". Con internet e il via cavo queste arrivano sette giorni su sette 24 ore su 24 "un vantaggio straordinario" dice Barber «per quanto altamente controproducente».
Veloce non significa affatto migliore - come dimostra la storia del Messico appunto - né tanto meno particolarmente appropriato. Nella sostanza pur di darla come "ultimissima" non si controllano fonti e si spara in prima una volta si sarebbe detto a "otto colonne".
Non solo. Tutti i mezzi di informazione blog compresi, infatti, pretendono sempre più contenuti così la storia vera "dovrà essere ammantata da una coltre di finte storie". La velocità quindi uccide la notizia e, più in generale, «ha corrotto la telecomunicazione, definendo nel contempo le presunte virtù di telefoni wi-fi, blackberry e Internet». Queste forme di comunicazione - sostiene sempre Barber - ci mettono istantaneamente in contatto con persone lontane dal nostro ambiente sociofisico, ma ci rimuovono dagli spazi sociali nei quali fisicamente esistiamo contribuendo all'annichilimento dello spaio pubblico già in atto. In questo caso velocità significa vacuo, superficiale, dimenticabile, senza senso, roba da ragazzi. Come i social network che illudono le persone (non tutte è chiaro) magari di essere tornate ventenni, che poi è l'altro grande tema del libro di Barber ovvero l'infantilizzazione della società.
Ma prima di spiegare in che cosa questa consista va subito osservato un problema, che non affronta Berber, e cioè che la velocità, questa velocità figlia della tecnologia, non solo peggiora il livello dell'informazione e abbassa quello culturale se non si è in grado di gestirla, ma è oltretutto nelle mani sbagliate. Oggi con un click non solo si manda una notizia in tutto il mondo, ma si possono spostare miliardi di euro con transizioni finanziarie o con dei semplici rumors. Si può mandare in crisi uno Stato intero solo ipotizzando che un'agenzia tagli il suo rating. Basta una "voce", un "sospiro" e le borse bruciano quattrini in nanosecondi e con essi, disgraziatamente, anche posti di lavoro, a ritrovare i quali non basterà invece un solo click, ma mesi se non anni. Dall'altra parte inoltre, ovvero nelle istituzioni, c'è una lentezza elefantiaca nel decidere e nell'agire che crea le condizioni di un mercato globale totalmente in preda al disordine.
Ma dicevamo dell'infantilizzazione. Il capitalismo moderno spinge a non far crescere gli adulti. La globalizzazione stimola le vendite ai giovani anche perché il mercato globale trova la sua definizione nei gusti relativamente comuni dei ragazzi. Le culture adulte sono (sarebbero) plurali e differenziate, ma se li si costringe a restare "teen ager" come «il bambino vuole ciò che vuole quando lo vuole lui, senza tenere conto delle esigenze degli altri» «l'uomo bambino non abbandona questo comportamento». La classica sindrome di Peter Pan che il mercato in alcun modo vuole combattere, anzi.
In un'economia dei consumi globali ormai in declino - sentenzia Barber - incapace di vendere ai poveri ciò di cui hanno bisogno (la cosa non paga), ma disperatamente impegnata a vendere ai ricchi quello che a loro non serve (alla faccia del seguire le regole del mercato per vendere le auto come sostiene Marchionne, ndr), l'infantilizzazione in questa forma strumentale segnala l'abbandono, da parte della civiltà occidentale, del concetto dell'infanzia come patrimonio prezioso e dei bambini come un fine in quanto tali, la cui felicità e il cui benessere sono l'oggetto del bene pubblico. Per questo gli odierni sofisti del marketing propongono di far sì che i bambini diventino consumatori o che i consumatori diventino bambini. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Dunque servirebbe un capitalismo diverso, ma come dice Barber «il potere è la costante che manca in quasi tutte le proposte di autoriforma analizzate». Una volta la democratizzazione - che davvero consente ai cittadini di una nazione di emanciparsi e quindi sfuggire a logiche infantilistiche - faceva sì che il potere privato diventasse pubblico e fosse oggetto di scrutinio. Oggi - prosegue - la globalizzazione mette spesso sia il potere reale sia i suoi molti abusi oltre la sfera di azioni dei governi nazionali. I problemi sono globali, la democrazia rimane locale. La democrazia è provinciale mentre i mercati - come diceva sopra - sono cosmopoliti e il rimedio quindi non è più proporzionato alla sfida. Un capitalismo - spiega sempre l'autore - dipendente dallo shopping non si limita a trasformarci in bambini; ci trasforma in bambini globali.
Che fare quindi? «Il rimedio ai mali della democrazia all'interno delle nazioni è una maggiore democrazia fra le nazioni». Serve dunque una democrazia globale attraverso una governance globale. Ma ne serve una forte perché - Barber cita Hobbes - «senza spada i patti non sono che parole» e questa debolezza lo dimostrano proprio i mancati accordi sulle questioni ambientali come le emissioni e il clima dove non solo non tutti firmano ma anche chi firma i patti poi non li rispetta perché non paga alcun prezzo - e dunque una governance vera deve avere un potere riconosciuto da tutti gli Stati in modo da democratizzare la globalizzazione.
Il punto è che quella che servirebbe - ovvero una governance globale che «comporta una sovranità condivisa e un autentico potere legale e politico transnazionale» - viene ancora considerata alla stregua di un ideale romantico di ingenui "unomondisti" che abbracciano gli alberi, sono sempre parole di Barber. Se non una cospirazione radicale di cosmopoliti sedicenti che cercano di sovvertire la fiera sovranità degli Stati Uniti. Ma una governance civica globale è l'unica strada possibile per un modello di sviluppo diverso ed è ormai improrogabile. Difficile uscirne, ma - conclude l'autore - come sempre è una storia che abbiamo costruito con le nostre mani, pertanto pur sotto il seducente dominio del capitalismo trionfante, siamo e restiamo artefici del nostro destino.