[11/11/2010] News

Il modello sociale da difendere (senza scambiare il poco con il tutto)

LIVORNO. «L´attacco dell´Europa al proprio modello sociale non è soltanto iniquo. E' pure cieco, perché apre la strada a una lunga recessione. Meno scuola e meno università significano avere entro pochi anni meno persone capaci di far fronte alle esigenze di un´economica innovativa e sostenibile». Luciano Gallino su Repubblica di oggi propone una riflessione interessante, che parte dalla constatazione che il movimentismo del nuovo millennio (leggi la protesta studentesca di ieri in Gran Bretagna, le manifestazioni contro i tagli delle pensioni in Francia o quelle  della Fiom a Roma) pare caratterizzato non più  dall'impegno ad ottenere qualcosa che non si ha ancora, come avveniva il secolo scorso, bensì a difendere quello che si rischia di perdere oggi e di non avere mai più.

In ballo ci sono tutte le conquiste che l'Europa ha faticosamente raggranellato in tema di welfare, ed è proprio il modello sociale europeo che oggi rischia di scomparire per sempre, fagocitato neppure più soltanto dalla necessità di rispondere alla regola della domanda e dell'offerta, bensì da quella, ben più incontrollabile e pericolosa della finanziarizzazione dell'economia.

E paradossalmente il modello di welfare sociale sarà sostituito proprio da quello imposto dalla finanziarizzazione, che presuppone forme di tutela individuali e volontarie, basate su fondi pensionistici e integrativi imperniati sulla speculazione e sul profitto da inseguire a tutti i costi, anche se questo profitto mangerà altri beni ed altre risorse ad altri cittadini, impossibilitati invece a comprarsi un proprio futuro.

Anche perché come ricorda Gallino «a una generazione intera la quale va incontro a pensioni che per chi ha la fortuna di decenni di lavoro stabile stanno scendendo verso la metà dell´ultima retribuzione, è arduo chiedere di pagare la crisi una seconda volta».

Eppure, come ricordava Guido Viale sul manifesto di domenica la «sacro­santa e irrinunciabile difesa dell'occupazione e del reddito sui luoghi di lavoro, se si svolge senza mettere in discussione logica e tipologia dei beni e dei servizi prodotti, al di fuori di una prospettiva di riconversione della struttura produttiva e dei modelli di consumo vigenti, è una lotta perdente. Per esempio non porta a nulla chiedere che la Fiat produca più auto, che ne produca di più in Italia, che produca modelli a più alto valore aggiunto, cioè di lusso, che produca "auto ecologiche" (peraltro un ossimoro). Per questo ritengo fulcro della riconversione il passaggio dall'accesso individuale ai beni e ai servizi a forme sempre più spinte di consumo condiviso».

Tutto questo spappolamento sociale andrà ovviamente anche a detrimento dei beni pubblici non contabilizzati, a partire da infrastrutture materiali e immateriali che se malgestite diventano economicamente disastrose quando c'è da riparare i danni (vedi la disastrosa gestione italiana della prevenzione del territorio).

Ma allora c'è qualche speranza che il movimentismo, no global e pacifista, che pareva aver smarrito la sua forza propulsiva con la grande stagione no global di Porto Alegre, possa dunque essere capace di recuperare un proprio ruolo, seppure difensivo, come abbiamo visto?

La crisi del 2008 e le sue attuali e lunghissime propaggini, potrebbe da una parte, argomentava Guido Viale «svilup­pare processi sia di com­pattazione autoritaria che di disgregazione del tessuto connettivo dell' economia e, della società». Ma dall'altra potrebbero anche costituire la scintilla per far nascere «una diversa forza trainante, non solo per realizzare, ma an­che solo per concepire e progetta­re nelle loro articolazioni qualsiasi trasformazione sostanziale».

Una forza del genere oggi non c'è. E questo secondo Viale perché per una riconversione di vasta portata «non bastano la difesa, la rivendica­zione e il conflitto; servono anche progettualità, valorizzazione dei saperi e delle competenze mobili­tabili, aggregazione non solo dell'associazionismo, ma anche di im­prenditorialità e di presenze istitu­zionali. Una aggregazione del ge­nere delinea un perimetro variabi­le, ma essenziale, di una democra­zia partecipativa - compatibile e per molto tempo destinata a convi­vere con le rappresentanze istitu­zionali tradizionali - le cui forme non potranno necessariamente es­sere simili dappertutto».

L'esito a cui va incontro Viale non potrebbe che essere quello "dal basso": ritenendo che «lo Stato e gli Stati siano la controparte e non gli agenti di una trasformazione come quella delineata, che non può essere governata o gestita, ma nemmeno progettata, dall'alto e in forma centralizzata. Tanto me­no possono svolgere un ruolo del genere la finanza internazionale o gli organismi che la rappresenta­no a livello planetario o quelli in cui si articola il loro potere».

Un punto sul quale greenreport non è mai stato troppo d'accordo, perché il problema casomai è fare quel tanto che non si fa (e che si può agire dall'alto di una governance illuminata, seppur lontanissima dallo status attuale) e non abbandonare quel poco (scambiato per tutto) che si può fare (e si fa e si deve continuare a fare sempre di più) dal basso.

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