[18/08/2011] News
Il tempo in cui viviamo è caratterizzato dalla progressiva diminuzione della fiducia nelle tradizionali fonti d'autorità, e in quelle istituzioni sociali che rappresentano ancora i traballanti, principali snodi attorno ai quali è organizzato il nostro modo di vivere in comunità, e per i quali si fatica a trovare un'alternativa.
In questa nostra epoca segnata dall'esaltazione degli aspetti razionali della natura umana, allo sciogliersi delle sicurezze e delle ideologie in quella che è stata definita dal sociologo Bauman una "modernità liquida", le figure del rischio e della paura - accuratamente distillate tramite i mass media - costituiscono spesso il collante sostitutivo che serpeggia tra le crepe della nostra società, tenendone ancora insieme i pezzi.
Allo sfumare di una base solida sotto i piedi dalla quale far crescere nuove idee e nuove visioni, si accompagna un allargarsi sempre più evidente della faglia che separa il concetto di "rischio" da quello di "percezione del rischio", come un tarlo che si inserisce alla base stessa della cieca fiducia rispetto alle inossidabili capacità di raziocinio della nostra specie.
Questo appare particolarmente evidente per quanto riguarda i pericoli maggiori per questa e le successive generazioni che cammineranno sul pianeta: quelli inerenti ai problemi ecologici ed ambientali, attinenti alla sfera più ampia di quella matrioska che vede situarsi al livello inferiore il nostro sistema sociale, a sua volta contenente quello economico - come è tradizionalmente dimostrato dalle teorie dell'economia ecologica. Questi pericoli, anziché essere presi in debita considerazione, vengono sistematicamente trascurati, se non coscientemente tralasciati.
I motivi alla radice di un simile comportamento autolesionista lasciano interdetti, mentre si cerca di trovare una via d'uscita a questo cul de sac: se un rischio non viene percepito come tale, è impossibile affrontarlo con efficacia, sia che si tratti di un rischio individuale sia che investa la collettività tutta.
Per indagare più in profondità tale fenomeno, greenreport.it ha contattato Jerome Bruner - professore alla New York university school of law - uno degli psicologi che hanno maggiormente contribuito, nel corso del XX secolo, alla formazione della psicologia cognitiva ed un esperto delle forme narrative che caratterizzano la modalità con la quale gli esseri umani costruiscono ed interpretano la realtà che li circonda.
Le lotte ambientali sono presenti sulla scena sociale e politica internazionale ormai da una quarantina d'anni, ma ancora si fatica ad affermare una narrativa che faccia davvero presa, e che porti ad un cambiamento di visione nella maggioranza dei cittadini e che possa riflettersi in concrete decisioni politiche.
«Perché le persone di tutto il mondo ignorino gli orrendi pericoli derivanti dalla degradazione dell'ecosistema rimane per me il più grande mistero. Certamente non ignorerebbero un allarme che li avvertisse di come la loro casa brucerà alla fine dell'inverno se non abbasseranno la temperatura della loro fornace! "Il mondo" è forse un concetto troppo remoto per raggiungere la paura delle persone? Oppure è presente un qualche senso di inevitabilità legato al concetto di "clima", che porta gli individui ad ignorare i presenti allarmi?»
Quali meccanismi psicologici pensa possano nascondersi dietro a queste domande?
«Ci sono due fattori coinvolti nel nostro fallimento (o nella nostra mancanza di volontà) nel riconoscere i pericoli a lungo termine per il nostro ecosistema, determinati dalla nostra attuale negligenza (o completa mancanza) rispetto le pratiche di controllo ambientale.
Il primo fattore ha a che fare con l'arco temporale d'attenzione limitato, tipico della natura umana. Noi esseri umani, in conseguenza di tale limitazione, concentriamo la nostra attenzione sulle questioni immediatamente rilevanti, riguardanti il qui-e-ora e, naturalmente, lo stesso fanno i mezzi di comunicazione, per i quali tutti noi dipendiamo per quanto concerne le notizie.
Di conseguenza, viviamo la nostra vita prestando la nostra attenzione ad un arco di tempo e di spazio molto limitato. E questo significa, naturalmente, che siamo relativamente "ciechi" per quanto riguarda sia la storia del nostro passato, che le previsioni per il nostro, distante futuro. Sia la nostra cultura che le nostre tendenze individuali rafforzano queste tendenze».
E per quanto riguarda il secondo fattore?
«Il secondo fattore attiene ad una sfera più individuale. Gli esseri umani sono molto abili ad evitare l'ansia, e lo fanno principalmente tramite ciò che i nostri colleghi psicoanalisti chiamano "negazione" - ovvero tenendo fuori dall'area della consapevolezza tutto ciò che potrebbe destare ansietà. E, naturalmente, gli allarmi riguardanti il deterioramento dell'ecosistema mondiale dovuto alle nostre attuali pratiche industriali suscita molta ansia.
Così, ignoriamo tali allarmi, non prestando loro attenzione o dubitando della loro validità. E distruggiamo di conseguenza l'ambiente, che rende possibile la nostra vita».
Cos'è possibile fare per evitare che questo processo distruttivo continui?
«Il vostro quotidiano aiuta, mettendo in guardia le persone rispetto ai pericoli ci attendono. Ma per le ragioni che ho appena esposto, questo non è sufficiente. Penso che quello di cui avremmo bisogno sia innanzitutto una ben pubblicizzata conferenza dei leader mondiali (politici, scientifici, anche religiosi), per portare l'attenzione del mondo sui pericoli a lungo termine che ci aspettano - davanti al fatto che rischiamo di distruggere il nostro futuro e che dobbiamo cambiare le nostre strade.
Provate ad immaginare un incontro del genere, cui partecipino capi di stato normalmente in opposizione l'uno contro l'altro, ma anche un campione di premi Nobel, e che includa anche il Papa e gli altri religiosi degni di nota! Forse sarebbe un passo verso la messa in allerta del mondo rispetto ai disastri che abbiamo davanti a noi.
Al proposito, potremmo anche chiedere che la Nobel Foundation costituisca un premio per coloro che contribuiscono maggiormente ai nostri sforzi per garantire la sopravvivenza a lungo termine del pianeta.
Il mio migliore auspicio per una "Conferenza mondiale sul futuro del nostro ecosistema" è che possa partire una risoluzione delle Nazioni unite, chiedendo che questa conferenza si tenga al più presto. O, forse, il lancio di un allarme da parte dell'Organizzazione mondiale della sanità. È davvero incredibile come si sia refrattari a guardare da vicino il futuro dell'umanità».