
[28/04/2011] News
Da qualche giorno il Sole24ore sembra aver intrapreso una campagna mediatica contro speculatori e finanza selvaggia. Anzi, più che ‘contro', sembra quasi una sorta di salvacondotto: "noi l'avevamo detto" in vista dell'ennesima probabile bolla finanziaria, condita dall'ammissione che dagli errori non abbiamo imparato e tutto è tornato a correre come prima del 2008.
Oggi il cosiddetto Sistema ombra di Wall Street che intermedia qualcosa come 22mila miliardi di dollari (il doppio di quello regolamentare), ieri i 9 top manager burattinai che in gran segreto ogni mercoledì tirano i fili dei trading dei derivati, domani grandi fratelli misteriosi... ed è sicuramente più facile gridare al complotto e disegnare nemici comuni e incommensurabili (strategia peraltro utile come strumento di costruzione del consenso) piuttosto che provare ad approfondire la complessità dei problemi, partendo magari dalle fondamenta: «le famiglie - scrive per esempio nel suo editoriale sul Sole Luigi Guiso - sono diventate i migliori generatori di profitto per gli intermediari. (...) La complessità delle transazioni, degli strumenti e dei contratti sottostanti è cresciuta di pari passo con l'intensità delle relazioni tra famiglie e finanza. Invece la capacità di capire questi strumenti non è cresciuta in parallelo». Non solo dunque la velocità della finanziarizzazione, ma anche l'infingimento con cui si tenta di nascondere che dietro alla finanza ci siano milioni di persone nel mondo, con i loro risparmi e i loro prestiti, che quasi sempre senza saperlo, contribuiscono a foraggiare un sistema completamente senza controllo.
L'economista Luciano Gallino ricordava un anno fa nel suo libro "Con i soldi degli altri" che prima della crisi «Il totale dei capitali dei fondi comuni e dei fondi pensione, nel 2007 era equivalente al Pil del mondo: 53 trilioni di dollari contro 54. Capitali che derivano dal risparmio di centinaia di milioni di persone, eppure questa enorme quantità di denaro è gestita in modo discrezionale da pochi grandi fondi. Il quesito che mi pongo è questo: non si potrebbero utilizzare gli investimenti gestiti da questi signori della finanza per porre riparo ai fallimenti dell'economia mondiale? Questo discorso si riallaccia a quello più generale sulla crisi: solo una più stringente regolazione dei mercati può evitare che una nuova tempesta si abbatta fra pochi anni sull'economia globale».
Il più imbarazzante fallimento dell'economia mondiale è la lotta contro la fame del mondo, finora basata su un concetto di fondo estremamente fallace, ovvero che crescendo, inevitabilmente a cascata tutti, fino al più povero, ne avrebbero tratto giovamento. A parte il fatto che bisognerebbe tenere conto dei limiti fisici del nostro pianeta, per cui come sappiamo la crescita non può essere infinita (e ci sono cose che possono e devono crescere e altre che invece non dovrebbero, perché mettono a rischio il futuro delle prossime generazioni), va ricordato che a marzo 2008 due della maggiori banche d´affari, Goldman Sachs e Morgan Stanley, avevano in portafoglio contratti a termine o futures per un totale di 1,5 miliardi di staia di grano (lo staio, o bushel, vale circa 36 litri e si usa di solito per misurare le granaglie): nessun produttore o mercante del mondo ha mai avuto nei suoi silos una simile quantità di grano.
«Pertanto, se i governi volessero davvero combattere la fame nel mondo - scriveva Gallino - avrebbero a disposizione uno strumento semplice ed efficace. Basterebbe vietare l´emissione e la circolazione al di fuori delle borse di derivati che hanno come sottostante alimenti di base. È quasi certo che in breve tempo i prezzi di questi ultimi scenderebbero di qualche punto, e parecchi milioni di persone in più riuscirebbero a sfamarsi. Infatti, per ogni punto percentuale in più o in meno del prezzo degli alimenti base, qualche milione di persone esce dal rango degli affamati, oppure vi entra».
Ecco allora che si torna ad evidenziare il cuore del problema: si scambia quelli che dovrebbero essere strumenti (l'economia e la finanza) con il fine, che dovrebbe essere il governo e la redistribuzione equa delle risorse, equa oggi e equa nei confronti delle generazioni future.
Dunque la finanziarizzazione (velocizzata all'ennesima potenza dall'informatizzazione) non ha solo bisogno di regole, ha bisogno di essere ri-condotta nei tempi che permettono l'orientamento e il controllo. E come abbiamo già scritto la riappropriazione collettiva della variabile tempo può essere la soluzione.
Ecco perché non sono beghe da bottegai quelle che da Firenze stanno contagiando mezza Italia sul primo maggio lavorativo: con i mercati occidentali saturi, lo spreco di massa finalizzato al mantenimento artificioso di produzioni in eccesso, è entrato in crisi irreversibile e si aggrappa ad ogni minuto per continuare ad agonizzare nelle sue vendite.
«Tutto sta nel decidere che tipo di società vogliamo - risponde oggi, ancora Gallino, su Repubblica Firenze - Una società che considera la sua coesione un valore, fatta di persone consapevoli, mature, che guardano alla qualità della vita e pensano al futuro, oppure una asservita all´economia, fatta di individui che pensano solo a consumare?».
Ma di cosa avrebbe bisogno, una società, per dirsi davvero tale? Proprio della riappropriazione collettiva della variabile tempo, che nelle parole di Luciano Gallino - che facciamo nostre per concludere questa riflessione - diventa: «Esattamente di ciò che si tenta di abbattere, e cioè della coesione interna indotta da quella che si può davvero definire una ritualità, fatta di scansioni, di pause, di punti fermi come il riposo settimanale, la domenica, di una tradizione di abitudini collettive, che servono a ricordare a tutti che l´economia non è tutto, ma deve porsi al servizio della persona e della collettività, non il contrario. E bisogna stare attenti a passare sopra a queste cose: perché se non si lavora concretamente per mantenere la coesione sociale, la deriva verso società sempre più individuali, e dunque conflittuali, è inevitabile, e mi pare che di altri conflitti, oltre a quelli che già ci sono, non ci sia proprio bisogno...».