
[29/06/2011] News
Il coraggio di cambiare. Lo dice Alberto Orioli sul Sole24Ore di oggi commentando la firma di Confindustria, Cgil, Cisl e Uil sulla riforma contrattuale e la manovra varata dal governo per il bilancio al 2014. Ma "fu vera gloria"? Direbbe Manzoni. Ai posteri l'ardua sentenza, ma a noi il compito di fare in modo che quando la sentenza arriverà, non sia troppo tardi.
Perché noi stessi, chi scrive non ha ancora quarant'anni, siamo i posteri di chi negli anni 80 ha imposto sempre più un modello di sviluppo e possiamo quindi in qualche misura dare già ora la nostra "sentenza".
«Il coraggio di cambiare» lo urlava tra le lacrime Rosaria Costa, vedova Schifani, durante i funerali di Giovanni Falcone e del marito morto ammazzato nella strage di Capaci. Ma poi aggiungeva «ma loro non cambiano, loro non vogliono cambiare».
Qui dentro, tra le pieghe della speranza e il pessimismo della ragione ci sta un Paese intero. Il nostro. La cosa si potrebbe allargare all'intero occidente, ma restiamo almeno stavolta alle nostre latitudini.
Anni fa un signore distinto con un forte accento sardo cercò di spiegare che l'austerità e il controllo democratico del mercato era l'unica strada per uscire dalla crisi e per costruire un modello di sviluppo che oggi si direbbe sostenibile. Sentire l'eco delle sue parole in bocca a chi per anni ha fatto del turbo liberismo un dogma fa in un primo momento sobbalzare, poi masticare amaro, poi riflettere. Tanto da porsi una serie di domande.
A partire dal perché oggi Confindustria, per bocca di Luca Paolazzi, responsabile del centro studi di viale dell'Astronomia, sostenga che: «c'è bisogno di politica. In Europa e soprattutto in Italia. La politica come capacità di scegliere e guidare "per rendere possibile ciò che è giusto, ciò che è doveroso, ciò che è necessario alla qualità della vita umana"».
Una scavalcamento, nelle dichiarazioni, addirittura a sinistra dell'attuale centrosinistra. Perché da tempo pure il centrosinistra ha sposato la logica delle "dinamiche autonome del mercato" che "non andavano né dirette né orientate».
Lo chiedono ora da destra, perché? Lo chiedono esigendo regole al mercato e alla finanza. Come le multinazionali americane, mutatis mutandis, che di fronte ai cambiamenti climatici chiedevano regole appunto al governo Usa di Bush figlio. Come i pescatori, che ieri sera a Annozero, di fronte a pescati sempre più scarsi e alla devastazione del mar Adriatico e del Mar Mediterraneo che loro stessi hanno contribuito a innescare, chiedono allo Stato e alla politica che li aiuti. Che impedisca la pesca a strascico (vedi altro articolo, link a fondo pagina).
Perché? Si tratta di un rinculo momentaneo o strutturale? Hanno rotto il giocattolo e ora chiedono di aggiustarlo ai genitori prima ripudiati o a quelli che prima venivano addirittura additati come cattivi maestri vetero-comunisti? Non hanno più santi a cui votarsi e si rivolgono alla politica? Difficile dirsi, certo, peccato però che siamo quasi fuori tempo massimo.
La politica attuale, purtroppo, "non cambia", perché "non vuole cambiare" perché nel frattempo si è svuotata in ragione del dio marketing. Non sceglie più perché non le conviene elettoralmente parlando, perché per scegliere serve coraggio e visione lunga, mentre il marketing e gli elettori trasformati in clienti/consumatori impongono il qui e l'ora. E quindi non è assolutamente, nello stato in cui versa oggi, raccogliere questo seppur tardivo (e peloso verrebbe da dire) invito.
Eppure se non ora quando? Una politica vera oggi ha (avrebbe) tutti gli elementi per proporre un nuovo paradigma economico che pur all'interno del capitalismo ne limiti fortemente gli impatti sulla società e sull'ambiente. Una proposta politica che tolga all'economia finanziaria la possibilità attraverso le società di rating e i titoli sovrani di decide delle sorti di un Paese intero. Che non controlli con un click il destino delle materie prime e dell'energia che sono i veri beni comuni. Che sappia scegliere cosa deve e cosa non deve crescere in un Paese dove non è possibile continuare a ignorare che il metabolismo economico è energia ed è materia e che l'economia ecologica sarà tale solo quando non si depaupereranno queste fondamenta che poi si abbattono sulla biodiversità delle specie animali (compresa la nostra) e marine.
Se siamo d'accordo che l'Italia non può far a meno dell'industria, se si crede che per rilanciarla servano nuove tipologie di contratto (e per ora non approfondiamo questa questione...), se è chiaro a tutti che non si possono lasciare al mercato le decisioni sul valore dei beni comuni, bisognerà altresì concordare che non tutta l'industria è buona in sé.
Ridurre i consumi di energia deve andare di pari passo alla riduzione dei consumi di materia. Incentivare l'energia rinnovabile deve andare di pari passo all'incentivare la materia "rinnovabile" che sono i rifiuti. Questa è l'austerità che serve oggi. Un'austerità dei consumi con rilancio di un'industria della sostenibilità. Sottoposta alle regole del mercato sulla scarsità delle materie e non sulle evoluzioni fantaeconomiche della finanza.
Non è un caso se ora si invoca dal Pd e dal centro-sinistra "l'alternativa" ed il programma, mentre fino a poco tempo fa gli stessi giornali si cullavano nell'illusione di un'eterna ed indolore "alternanza" con schieramenti che non invocavano nessun cambio di sistema, perché ormai non più necessario nel capitalismo globalizzato e livellante.
Il problema è che ci sembra che nessuno sia attrezzato per l'alternativa a questo disastro, quasi come la balena grigia del Pacifico che si è trovata a nuotare nel mare incognito Mediterraneo fino a sperdersi davanti alle coste israeliane.
La sentenza di noi posteri di ieri all'attuale modello di sviluppo è quindi di "morte". E la manovra annunciata dal governo, seppur con qualche aspetto interessante, essendo già proiettata nei suoi impegni maggiori sottoforma di cetriolo per il governo che verrà, non induce all'ottimismo. Logorati da una nazione ancora oggi nota all'estero al pari delle sue bellezze artistiche per le sue bruttezze e nefandezze fatte di mafie, logge, voti di scambio, nepotismi e raccomandazioni, abusivismi edilizi, noi il coraggio di cambiare ce lo abbiamo e lo pretendiamo ora.
Dei riconoscimenti a posteriori - Berlinguer docet - non sappiamo che farcene.