[26/07/2011] News
Il direttore del Centro di ricerca in epistemologia sperimentale e applicata traccia un quadro dell'approccio innovativo offerto dalla neuroeconomia allo studio della realtà economica
Sulle pagine di greenreport.it (vedi link) è già stata affrontata una parziale disamina su alcuni dei campi d'indagine affrontati dalla neuroeconomia, una disciplina di recente formazione che sembra poter dare un impulso deciso per una svolta nel nostro modo di intendere l'economia.
Per approfondire il tema, greenreport.it ha contattato Matteo Motterlini (Nella foto) dell'università Vita-salute San Raffaele di Milano, direttore del Cresa (Centro di ricerca in epistemologia sperimentale e applicata, eccellenza italiana che incrocia studi di filosofia, economia e scienze cognitive).
L'avvento di neuroeconomia ed economia cognitiva, studiando anche fenomeni come le bolle finanziarie, sembra esser finalmente riuscito ad abbattere l'idea della natura umana che prende corpo nella rappresentazione dell'homo oeconomicus. Quale impatto ha avuto tale nuova concezione, e dove si intuisce che queste nuove teorie potranno condurre la teoria economica?
«La neuroeconomia non ha mostrato la fine delle teorie economiche neoclassiche, né si impone di raggiungere un traguardo di questa natura. I risultati ottenuti mostrano però come l'irrazionalità sia parte integrante del modus operandi con cui l'essere umano prende le proprie decisioni, anche in campo economico. Un'irrazionalità tuttavia prevedibile, volendo, che quindi può e deve essere debitamente considerata nella costruzione di modelli teorici comportamentali, che risultano così più calati nel mondo reale di quanto lo siano quelli tipici dell'economia neoclassica.
Modelli di questo genere, di conseguenza, offrendo una rappresentazione più pragmatica di quanto possano permettersi di fare interpretazioni puramente teoriche, possono essere uno strumento per prendere decisioni di politica economica più pertinenti, fondate su basi empiriche. Prendendo in esame quelli che sono gli effettivi comportamenti economici, il loro potere interpretativo e la loro efficacia risulta ampliata».
Ma non c'è il rischio per la neuroeconomia di appiattirsi eccessivamente sul mainstream, se punta ad un'analisi prevalentemente matematica dei fenomeni psicologici che tratta?
«Questo rischio non c'è, almeno per quanto ci riguarda, anche perché la neuroeconomia è in qualche modo ancora mal vista, sprovvista di una grande dignità accademica in Italia (basti osservare come siano solo tre le Università italiane che prevedono il suo insegnamento). Negli Usa, invece, ormai fa parte del mainstream, nel senso che il suo apporto è stato accettato e diffuso, tanto da renderla materia di studio ed insegnamento all'interno delle migliori università del Paese».
Lei parla di irrazionalità del comportamento umano, ma sottolinea che si tratta di "un'irrazionalità prevedibile": si può dire che rifiuta la definizione di Keynes, per cui l'investimento in borsa rimane un gioco d'azzardo, e dunque aleatorio per definizione? Oltretutto, se si osservasse un mercato senza fattore di rischio, lo stesso mercato (a maggiore ragione se si parla di un mercato di tipo prettamente finanziario) probabilmente sparirebbe, in quanto i profitti si basano proprio sul rischio, essendo il risultato di scommesse e valutazioni contrastanti.
«Trovo la definizione offerta da Keynes perfettamente condivisibile, e trovo che sia del tutto compatibile con le teorie neuro economiche. Non la rifiuto. Anzi, molto della finanza comportamentale ha mostrato sperimentalmente la validità di tale visione dei mercati finanziari, offrendo una base ed un conforto empirico a questa concezione keynesiana. Sono presenti sul mercato gestori di fondi d'investimento che muovono i loro pezzi sulla scacchiera tenendo conto di questa irrazionalità prevedibile degli agenti economici».
Crollato il castello di carte utilitarista che implicava l'agire umano come perfettamente razionale, dove i vari ed egoistici interessi individuali si controbilanciavano come guidati da una mano visibile verso l'equilibrio sociale, la neuroeconomia dà nuovo slancio all'uomo come animale fondamentalmente empatico (famosa l'osservazione per cui un broker vive l'insuccesso di un suo vicino come il suo, e reagisce di conseguenza). Quale nuova etica può emergere dal rafforzarsi di questa visione?
«Sarebbe bello poter affermare che quel castello è già crollato per merito della neuroeconomia, ma mi risulta che sia sempre in piedi, e materia di studio e insegnamento nelle facoltà di economia di ogni università. La neuroeconomia ha mostrato su basi sperimentali che ci sono decisioni non in linea con i modelli economici classici: in questo senso, il castello, cade.
Va comunque tenuto presente come non si abbiano due teorie in competizione diretta, una alternativa all'altra. Il merito della neuroeconomia sta nell'offrire modelli economici neoclassici integrati con forti assunzioni di tipo comportamentale, che conferiscono all'intera teoria quella valenza nel mondo reale di cui altrimenti risulta sprovvista.
Per quanto riguarda l'utilitarismo, è bene sottolineare come si affronti non una semplice assunzione, ma un insieme molto ampio. Ritengo che l'etica economica non possa prescindere dal funzionamento del cervello e dal nostro modo di prendere le decisioni, manipolate - ad un livello più o meno consapevole - dai limiti cognitivi che caratterizzano la nostra natura.
Comunque considero come l'ambito d'investigazione della neuroeconomia investa non tanto questioni legate all'etica, ma quelle legate alla natura dei modelli economici, restituendo un'economia più vicina al mondo che ci circonda, che non sia un asettico "modello esatto" come quelli presenti nello studio della fisica, ma possa così riuscire ad aderire agli argomenti che affronta».
Da più ed autorevoli parti si leva finalmente la voce per cui l'attuale crisi non è che la punta di un iceberg, che nasconde una più profonda crisi dell'impianto economico tutto, improntato verso un'insostenibile crescita economica, di stampo esponenziale, che si vorrebbe durasse all'infinito. Urge un cambio di paradigma nel nostro modo di vivere l'economia, costruendo un nuovo modo di definire la realtà che ci circonda, e tramite la quale indirizzare un'economia ed una società più sostenibili. Considera che questa possa essere un'interpretazione corretta e, in tal caso, crede che la neuroeconomia possa offrire un qualche apporto per raggiungere questo obbiettivo?
«Ritengo sia una domanda molto interessante. Lo scorso anno sono stato invitato in Puglia a parlare in occasione del "meeting mondiale dei giovani per un futuro sostenibile", dove ho tenuto proprio un intervento su questo. Ho mostrato come la recente crisi finanziaria non abbia mandato in crisi solo il moderno sistema economico internazionale, ma anche la teoria economica sulla quale questo si basa. Se crolla il sistema, non si può anche non mettere in discussione la teoria in cui questo affonda le sue radici.
L'eccessiva artificiosità della finanza non è più sostenibile. Strumenti come i subprime non lo sono più: impacchettare rischi ed offrirli in pasto al mercato non può essere considerato sostenibile.
Se recuperiamo la posizione centrale che l'uomo deve occupare, e teniamo presenti i limiti del suo agire razionale, si presenta allora la possibilità di un economia più sostenibile. Dunque, la risposta è si: la neuroeconomia, con il nuovo approccio di cui si rende portavoce, può offrire il suo contributo per raggiungere l'obbiettivo di un cambio di paradigma».