
[26/08/2011] News
Quando entrò trionfante alla Casa Bianca, in un momento di storica trasformazione per gli Stati Uniti, Obama non immaginava che si sarebbe trovato in un'impasse come quella che deve affrontare oggi in Medio Oriente. Questa regione rientrava fra le sue priorità, le aveva dedicato una grande attenzione fin dal primo momento ed aspirava a realizzarci una pace che avrebbe consacrato il suo nome nella storia, dove aveva già fatto il suo ingresso come primo presidente di colore in uno Stato originariamente fondato sulla discriminazione razziale.
Ma ora teme che questa regione, che secondo i suoi sogni avrebbe potuto garantirgli il lasciapassare per l'immortalità, potrebbe invece cacciarlo dalla storia. E' infatti la prima volta che gli Usa appaiono incapaci di plasmare gli orientamenti regionali in modo da salvaguardare i loro interessi in una delle regioni più importanti per loro, da quando si sono trasformati in una superpotenza, divenendo il principale protagonista internazionale nella regione.
Ed è anche la prima volta che un presidente americano non è in grado di contentare nessuno in Medio Oriente. Infatti, se Israele non è contento della politica mediorientale di Obama, neanche gli arabi hanno ottenuto nulla di quanto aveva loro promesso nei primi mesi della sua amministrazione, in particolare nel discorso al mondo islamico pronunciato il 4 giugno 2009 all'Università del Cairo.
Allo stesso modo, il suo imbarazzo ed il suo atteggiamento esitante nei confronti delle proteste che si sono verificate e continuano a verificarsi in numerosi Paesi arabi, potrebbero indebolire la fiducia di alcuni governi arabi nell'utilità dell'amicizia con gli Usa, mentre allo stesso tempo gli hanno impedito di guadagnarsi le simpatie dei popoli di questi Paesi.
Perciò Obama si trova di fronte a un duplice impasse, fra gli arabi e Israele da un lato, e fra i popoli arabi e i loro governi dall'altro. E' noto a tutti che il governo Netanyahu tratta il presidente americano come un possibile avversario e non come un alleato sicuro. Con questa sua posizione, quel governo è espressione di una corrente predominante all'interno della società israeliana che, da circa 10 anni a questa parte, tende sempre più verso le posizioni di destra. Alcuni sostenitori intransigenti di Israele negli Stati Uniti appaiono ancor più schietti e duri nell'esprimere la loro insoddisfazione nei confronti dell'amministrazione Obama e delle sue politiche.
John Bolton, l'ex ambasciatore Usa all'Onu, è quello che forse si è spinto più in là nell'esprimere questa tendenza quando ha descritto Obama come "il più anti-israeliano dei presidenti americani". Sebbene questa definizione, rilasciata nel corso di un'intervista al Jerusalem Post, sembri andare oltre i limiti della ragionevolezza, Bolton l'ha utilizzata nel contesto di un paragone con i predecessori di Obama, ed in particolare con Bush figlio.
Mentre il Jerusalem Post pubblicava questa intervista, la Commissione di controllo della Lega Araba sull'iniziativa di pace era riunita a Doha per discutere l'approccio da tenere con l'Onu, le modalità per sostenere la richiesta del riconoscimento di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme est e la mobilitazione per presentare una domanda di piena adesione di questo Stato all'Onu. Il comunicato emesso dalla Commissione giovedì 14 luglio ha nuovamente posto il presidente Obama in una posizione estremamente imbarazzante nei confronti degli arabi.
Se la richiesta palestinese dovesse ottenere una netta maggioranza all'Assemblea generale dell'Onu, ed essere poi rinviata al Consiglio di Sicurezza con il sostegno di questa maggioranza, Obama si troverebbe in una posizione insostenibile. Il dilemma in cui si troverebbe Obama sta nel fatto che ricorrere al diritto di veto, per impedire il riconoscimento dello Stato palestinese e la sua piena adesione alle Nazioni Unite, pochi mesi dopo aver appoggiato l'indipendenza del Sud Sudan, rifletterebbe un odioso doppio standard. Ma il dilemma più grande per Obama sta nel fatto che l'utilizzo del veto contro il riconoscimento dello Stato palestinese accrescerebbe i risentimenti degli arabi ed allo stesso tempo non sarebbe sufficiente a fargli ritrovare la perduta fiducia di Israele.
E questo è anche il dilemma che deve affrontare riguardo ai popoli ed ai governi di alcuni Paesi arabi, che lo hanno colto di sorpresa con qualcosa che egli non si aspettava quando era entrato alla Casa Bianca, e durante la prima metà del suo mandato. Alla fine del suo secondo anno alla presidenza, è stato colto alla sprovvista dai cambiamenti interni ad alcuni Paesi arabi che lo hanno obbligato ad affrontare una nuova realtà che non conosceva e che nessuno dei suoi servizi di intelligence e dei suoi think-tank aveva previsto.
La sorpresa si è rivelata troppo grande e lo è tuttora. La posizione di Obama e della sua amministrazione è apparsa confusa di fronte alle proteste scoppiate in Tunisia. La confusione e l'imbarazzo sono aumentati quando le proteste hanno avuto luogo in Egitto, al punto che la posizione di Obama e della sua amministrazione è cambiata quattro volte in appena 17 giorni (dal 25 gennaio al 10 febbraio). La Casa Bianca si è mostrata inizialmente fiduciosa nella stabilità del regime di Mubarak. Poi, dopo meno di una settimana, è passata a chiedere le sue dimissioni immediate. Ma alcuni giorni dopo è tornata sui propri passi preferendo che egli rimanesse per qualche tempo, al fine di apportare i necessari emendamenti costituzionali. Infine ha cambiato posizione una quarta volta insistendo che Mubarak lasciasse il potere.
Se le pratiche di Gheddafi e del suo regime, e la sua immagine negativa a livello arabo ed internazionale, hanno aiutato Obama e la sua amministrazione a definire rapidamente la propria posizione, schierandosi con il popolo libico, lo stesso non è avvenuto in Siria e nello Yemen. La posizione americana rispetto agli eventi sviluppatisi in questi due Paesi continua a oscillare, perfino dopo l'annuncio di Obama, la scorsa settimana, che il presidente Assad "ha perso la propria legittimità agli occhi del suo popolo e ha sprecato un'occasione dopo l'altra di avviare riforme reali".
Malgrado ciò, non è chiaro il significato politico del suo discorso di "mantenere una pressione crescente nei confronti del regime siriano", così come nessuno ha compreso nei mesi scorsi la logica della sua politica nei confronti di Damasco, in primo luogo a causa dei suoi tentennamenti. Questo discorso totalmente privo di chiarezza non può che essere espressione dell'impasse in cui si trovano Obama e la sua amministrazione di fronte a cambiamenti che li hanno colti impreparati e rispetto ai quali sono incapaci di assumere una posizione netta. Obama non riesce ad allontanarsi da un regime di cui non è soddisfatto prima che crescano le proteste contro di esso. Per altro verso, non ha fiducia nella capacità dei manifestanti di realizzare i propri obiettivi, così come non nutre fiducia negli orientamenti di un eventuale nuovo regime. In un modo o nell'altro, questo forse spiega anche la sua posizione nei confronti della crisi yemenita. Obama non ha preso una decisione definitiva nei confronti di questa crisi, malgrado il vuoto presidenziale che si protrae ormai da circa un mese, e così facendo suscita il rancore dell'opposizione yemenita. La richiesta di Obama di un passaggio dei poteri non ha più significato, senza un sostegno reale all'iniziativa del Consiglio di cooperazione del Golfo e se non convince il presidente Saleh a farsi da parte, a porre fine al controllo della sua famiglia sui gangli del potere yemenita, ed a convocare elezioni presidenziali e parlamentari. Il sostegno americano a questa iniziativa continua ad essere puramente verbale, deludendo in questo modo le speranze degli yemeniti, che sono ormai stanchi della crisi, e influendo negativamente sulla situazione regionale.
Oggi Obama appare dunque in un duplice impasse, dopo due anni e mezzo alla guida della prima superpotenza mondiale, lontanissimo dalle aspettative che avevano accompagnato il suo ingresso alla Casa Bianca e dalle speranze che aveva sollevato nel suo Paese e nel mondo intero.
*Analista e commentatore egiziano, direttore del Centro "al-Ahram", ex direttore della redazione del Cairo del quotidiano panarabo "Dar al-Hayat", autore di numerosi libri. Questo articolo è stato pubblicato da "Dar al-Hayat" e ripreso da diversi quotidiani e siti arabi e da Medarabnews