
[17/10/2011] News
Qualche giorno fa, al termine di una partita di pallacanestro due cinesi men che ventenni della provincia di Jilin, nel Nord-Est della Cina, si sono insultati prima e presi a pugni poi. Il giovane Hao ha avuto la peggio contro il più prestante Wu ed allora ha chiamato i genitori in soccorso. Il padre, insieme ad una banda di una decina di ventenni, armati di una specie di machete, hanno punito Wu, che, orrendamente mutilato, è morto il giorno dopo all'ospedale. Brutta storia, con un risvolto sociale. "Siamo ricchi, diteci quanto volete" così la madre di Hao avrebbe apostrofato i parenti di Wu. "Siamo una famiglia ricca. Se voglio, ti posso ammazzare" è stata la minaccia urlata dal padre di Hao al giovane Wu durante l'aggressione.
Una vicenda tragica che però ancora una volta racconta qualcosa che sempre più frequentemente solleva l'indignazione dell'opinione pubblica cinese: l'arroganza dei ricchi, che credono e vogliono far credere di potersi permettere tutto. Questa versione orientale dell'italico "lei non sa chi sono io" appare talora solo fastidiosa e volgare, ma spesso, anche senza arrivare agli estremi sopra narrati, tocca corde sensibili. Così, ad esempio, succede quando si scopre che i ricchi possono farsi beffe dei limiti legali al numero di figli, poiché la pena consiste in una semplice multa e quindi il diritto al secondogenito si può di fatto pagare.
Monta insomma il disagio collettivo per il riemergere nella Cina, che ancora si dice comunista, di un vero e proprio conflitto di classe. Nessuno nega a molti degli attuali ricchi il merito di esserlo: la borghesia imprenditoriale cinese è composta ampiamente di persone che "si sono fatte da sé" e che all'italiano spesso ricordano, con simpatia, i piccoli imprenditori del nord o della terza Italia d'un tempo. E nessuno ha intenzione di rompere il grande compromesso che regge il successo della Cina contemporanea: libertà di arricchirsi in cambio di stabilità sociale, garantita dall'autoritarismo del Partito.
Ma le tensioni di classe oggi appunto sembrano mettere in crisi la capacità di continuare a svilupparsi nella tanto decantata "armonia". Trattandosi di mesi in cui si definisce il ricambio ai vertici nazionali del Partito, è importante vedere come questi problemi, che significativamente la stampa ufficiale non nasconde affatto, si traducano nei complessi giochi di potere a Pechino.
Una risposta viene dalla megalopoli dell'Ovest, Chongqing, dove il leader cittadino del Partito, Bo Xilai (en.wikipedia.org/wikipedia/Bo_Xilai nella foto), sta proponendo quello che affrettati commentatori occidentali hanno etichettato come un rigurgito neo-maoista. E' vero che la propaganda a Chongqing è divenuta presente e pressante, con un costante richiamo a Mao ed ai valori fondanti del comunismo cinese ed una rinnovata ritualità di citazioni e canti patriottici. Ma ricordiamoci che Bo, figlio di uno degli "immortali" protagonisti della Lunga Marcia, conosce bene cosa sia stato il maoismo originale, avendo passato dieci anni tra prigione e campi di lavoro durante la Rivoluzione Culturale.
Bo, uno dei leader più anticonformisti della Cina di oggi (già brillante ministro del commercio estero, con innumerevoli amicizie in occidente ed un figlio che studia ad Oxford, comunicatore carismatico, appassionato delle nuove tecnologie) ha di fatto avviato quella che a molti appare come la prima campagna elettorale "di fatto" nella storia della Cina contemporanea. In gioco, prima che la sua persona (verosimilmente perdente rispetto a leader più "affidabili"), è il messaggio che da Chongqing viene mandato a Pechino.
I contenuti sono trasparenti e (si dice) irritanti per alcuni a Pechino: lotta durissima e spettacolare alle mafie locali; sviluppo economico strabiliante ma regolato (a cominciare dalle ricadute ambientali, come ha sperimentato la tedesca BASF in una lunghissima trattativa per l'avvio del proprio stabilimento); una presenza dei pubblici poteri divenuta visibile (anche con appariscenti ed ipertecnologici chioschi della polizia nelle strade); bandiere rosse e canti patriottici, grandi manifesti vecchio stile e citazioni di Mao inviate per sms e sul Twitter locale, ma al tempo stesso spinta decisa all'apertura internazionale.
Il senso è altrettanto chiaro: il Partito deve riprendere, nei fatti e nei valori, un controllo vero sulle dinamiche dello sviluppo e sulle ricadute sociali. Il matrimonio col capitalismo regge, a patto che sia inclusivo, sostenibile e "compatibile". Chongqing chiama: vedremo la risposta di Pechino.