
[01/02/2012] News
«Credo fermamente che nelle attuali circostanze le politiche che ispirano fiducia incoraggeranno la ripresa economica invece di ostacolarla, perché oggi la fiducia è un elemento cruciale». Citate dal Nobel per l'economia Paul Krugman in un articolo tradotto oggi da la Repubblica, le parole dell'ex-presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, rimbombano ormai del suono delle campane a morto. La Grande Recessione occupa le cronache italiane, europee e mondiali da quattro anni, senza alcuna traccia ancora della robusta rinascita della fiducia che tutti invocano.
Sebbene sia arduo proclamare "la" crisi del capitalismo - fors'anche semplicemente perché manca un qualsiasi altro paradigma economico tanto maturo da poterlo davvero sostituire - il periodo di recessione che si è da tempo infiltrato nella nostra quotidianità non rappresenta neanche "una" normale crisi del sistema capitalismo, ciclicamente caratterizzato da fasi di picco e momenti di stasi. Innanzitutto, e questa è un'evidenza empirica, a causa della particolare gravità e durata della crisi stessa. Una recente analisi del National institute of economics and social research, ci comunica ancora Krugman, avverte di una dinamica che pare più grave della crisi del '29, la famosa e terribile Grande Depressione.
Studiando l'andamento del Pil reale nel corso dell'attuale recessione, e confrontandolo con le variazioni del medesimo indice registrate durante gli anni che sono seguiti al crollo di Wall Street, il triste primato spetta alla crisi in corso: «allora, solo quattro anni dopo l'inizio della depressione, il Pil britannico era tornato ai suoi massimi livelli precedenti, mentre ora, a quattro anni dall'inizio della Grande Recessione, la Gran Bretagna è assai lontana dall'aver recuperato il terreno perduto. La situazione inglese, del resto, non è l'unica. Anche l'Italia sta andando molto peggio rispetto agli anni Trenta, e la Spagna è palesemente in dirittura verso una recessione douple dip: ben tre su cinque Paesi importanti dal punto di vista economico in Europa sono a entrati a far parte del club "peggio di allora"».
C'è dunque un motivo preciso per il quale i nostri nonni riuscirono a imbrigliare la crisi che li attanagliava con più efficienza di quanto non siamo finora riusciti a fare noi maldestri nipoti, ottant'anni e una gran quantità di rispettabilissimi economisti dopo? Purtroppo o per fortuna, viviamo in un mondo complesso, molto più complesso anche di nemmeno un secolo fa, ed una risposta univoca è impossibile. Nondimeno, solo un'ostinata e persistente cecità sembra impedire di far propri anche i più macroscopici tra i pezzi che compongono il puzzle della soluzione al dilemma.
Non si tratta però di una cecità imposta dalla malattia dell'ignoranza, ma dal pesante mantello dell'ideologia che grava sugli occhi della gran parte dei cosiddetti policy maker. Discipline come l'economia ecologica, o la neuroeconomia, sono presenti da anni (se non da decenni) sul palcoscenico scientifico internazionale, ma si preferisce ancora relegarle al ruolo di cenerentola. Al contrario delle teorie più classiche del mondo economico, entrambe hanno il pregio di basare le loro analisi su dati empirici, e che dunque trovano conforto nel mondo reale.
Un mondo che offre risorse finite, e che dunque non può presupporre una crescita infinita di un suo sottosistema, il sistema economico umano; un mondo che non è popolato, al contrario dei libri d'economia, dal freddo homo oeconomicus, ma dall'umano homo sapiens sapiens, le cui scelte sono profondamente influenzate dalle emozioni, dal sistema di pensiero e dalla morale in cui si trova immerso.
Proprio l'ideologia che nega l'evidenza di queste constatazioni si mostra come una delle conferme più tragiche del ruolo che le emozioni (fortunatamente) giocano nel nostro agire, e che la nostra lotta per uscire dal tunnel della crisi non è contro leggi immutabili, lungo la strada del "non ci sono alternative". Ci troviamo, semplicemente, di fronte a delle scelte da prendere e, almeno finché siamo ancora in tempo per farlo, possiamo decidere di ingranare la marcia indietro ed imboccare un modello di sviluppo sostenibile, strappando di mano i dadi del gioco da un ineffabile destino che, tutto sommato, rimane anch'esso un'ombra, semplice retaggio della nostra ideologia.