
[07/03/2012] News
«Negli anni successivi al 1980 e, ancor di più, in quelli seguenti il 2000, sono state poste le basi della crisi. Il sistema bancario, de facto, è diventato in gran parte non regolato e non garantito. Il leverage è cresciuto, sia alimentando che essendo alimentato da bolle immobiliari (e, in Europa, dalla falsa fiducia favorita dalla creazione dall'introduzione dell'euro). Le condizioni per il disastro si sono accumulate, ed il disastro è avvenuto».
Paul Krugman (nella foto), premio Nobel per l'economia del 2008, nel proporre la sua autorevole interpretazione della crisi in corso (perché ancora certo non è finita, nonostante il recente entusiasmo dei leader europei per la firma del fiscal compact) riesce in ciò che generalmente invece difettano molti suoi colleghi: accettare il corso degli eventi come un necessario bagno di umiltà. In un lungo intervento recentemente svoltosi a Lisbona, il cui testo è apparso sulle colone del New York Times - e del quale riportiamo qui alcuni stralci - Krugman osserva come, mentre è nei momenti di crisi che agli economisti la politica guarda con ansia per guidare le proprie scelte, proprio al sopraggiungere della crisi le teorie dominanti in ambito economico si sono sciolte come neve al sole, favorendo in questo modo il proliferare di scelte politiche inopportune.
«Biasimo gli economisti - continua infatti Krugman - che erano incoerenti nell'ora del bisogno. Lungi dal contribuire con indicazioni utili, molti membri della mia professione hanno alzato la polvere, favorito la confusione, e di fatto degradato la qualità della discussione», osservando poi come, invece, il semi-consenso, agli albori della crisi, tra gli "economisti d'acqua salata" - i «puristi neoclassici», coloro che prima dell'inizio della crisi (ed ancora oggi, in buona parte) rappresentavano la corrente prevalente nel mare magnum del pensiero economico - e gli "economisti d'acqua dolce" (che potremmo definire come il gruppo dei keynesiani) sulla necessità di un intervento pubblico a sostegno dell'economia sia stato «fondamentale nel guidare la politica iniziale», evitando il peggio; in seguito, lo «scadere degli economisti in disinformati litigi ha disfatto tutto questo, lasciandoci dove siamo oggi».
Riguardo all'efficacia del fiscal compact fresco di firma, dalle pagine del Sole24Ore, Martin Wolf ha avuto oggi modo di lanciare un nuovo avvertimento riguardo la fallacia dell'impostazione sul quale l'impostazione stessa del fiscal compact si basa, defindendolo un «trattato che solleva profondi interrogativi, sul piano giuridico, politico ed economico»: «il trattato è il prodotto di una convinzione che la crisi sia stata causata dalla mancanza di disciplina di bilancio, e che la soluzione potrà venire da una maggiore disciplina. Ma la disciplina di bilancio non è tutta la verità, neanche lontanamente. E l'applicazione rigorosa di un'idea così infondata è pericolosa».
La Germania - gigante economico dell'Unione europea - così si trova ancora una volta, da più di un secolo a questa parte, col tenere tra le proprie mani il boccino e la possibilità di dettare il gioco, scegliendo per il momento di seguire una strada altra dalla solidarietà europea, ma fondata sul teutonico sguardo all'importanza della solidità del bilancio, al rispetto dei conti, al rigore a tutti i costi. Pressata in questo senso da logiche di partito, Frau Merkel cede a fatica ogni passo, quando e se cede; probabilmente, così, dovremo quanto meno aspettare l'autunno e le elezioni tedesche (precedute dalle non meno importanti elezioni francesi, e seguite dalle quanto mai enigmatiche italiane, nel 2013), per saperne qualcosa di più sul futuro dell'Unione e, con essa, dell'economia non solo europea ma mondiale.
Di fronte allo sbigottimento e al violento balbettio che l'ultraliberismo ancora profonde innanzi al continuo dilagare della crisi, quel che c'è di buono è che il pensiero eterodosso e progressista comincia a riguadagnare terreno. La speranza è che, dalla breccia già aperta nel mondo della cultura, e sempre più ascoltata, questa avanzata possa finalmente dilagare anche in politica, rivitalizzando le forze del cambiamento, tradizionalmente sinistroidi, ormai altrimenti asfittiche - specialmente in territorio italico.
La portata del cambiamento è epocale. La forbice più clamorosa che continua ad allargarsi non affatto l'asettico spread, ma le disuguaglianze di status tra la cuspide e gli strati più bassi dei cittadini, in Italia come nella quasi totalità delle economie avanzate: causa primigenia della crisi finanziaria ed economica, accanto alla deregulation che ha favorito il dilagare della finanza speculativa, questa ferita esige di esser curata al più presto. Al contempo, la pressione esercitata dall'attività umana in ambito economico riesce a far scricchiolare sempre più i già stressati vincoli fisici posti alla nostra crescita dall'ecosistema che ci nutre; compito imminente della democrazia (che per la sfera dell'economia rappresenta e deve rappresentare la guida, e questa posizione deve riguadagnare) è quello di indirizzare l'attività di produzione, di scambio e consumo di beni e servizi all'interno di tali vincoli, promuovendone così la sostenibilità.
Non è dunque certo un compito facile, quello che aspetta la democrazia, le istituzioni che la rappresentano e dunque, in ultima analisi, i cittadini che ne costituiscono la base. Ma l'urgenza del compito stesso, più di ogni altra cosa, deve promuoverne la buona riuscita; e se per noi europei è vero, come è vero, ciò che oggi Ernesto Galli della Loggia scrive sul Corriere della Sera - e cioè che, pur con tutti i suoi limiti, ‹‹lo stato nazionale è pur sempre l'unico contenitore possibile entro il quale possa esercitarsi l'autogoverno di una collettività - le sue valutazioni rimangono valide al tempo presente.
Parlare di un governo federale dell'Unione europea non è più certo fare i Tommaso Moro della situazione, inneggiando ad un'inarrivabile Utopia. L'emergenza della crisi ci vota al raggiungimento di questo fondamentale obiettivo, alzando il livello del controllo democratico dal piano nazionale a quello europeo, per poter così almeno fendere da più vicino il potere incontrollato di una finanza sregolata che si muove su un piano internazionale, e continuerà a farlo, macinando profitti e depredando risorse. Se l'Unione e i suoi cittadini vogliono riportare in auge il primato della democrazia e i valori che la muovono contro quelli del grezzo utilitarismo, non possono esimersi dal perorare la causa: portare a compimento il progetto di un governo federale europeo.