[13/03/2012] News

La My Lai afghana e la fine delle illusioni imperiali nel mondo della crisi ecologica ed economica

Il massacro di 16 civili afghani perpetuato da un soldato (o forse più) americano ricorda quello di My Lai, in Vietnam, nel lontanissimo 16 marzo 1968, quando la Compagnia Charlie, della XI Brigata di fanteria leggera, agli ordini del tenente William Calley, sterminò barbaramente per rappresaglia 347 vecchi, donne, bambini e neonati. A poco serviranno le promesse del segretario alla difesa Usa Leon Panetta di punire duramente il responsabile, fino a prospettare una condanna a morte che tutti sanno che non ci sarà come nei (troppi) precedenti casi simili.

Ma l'orrendo massacro afghano, che segue le asettiche stragi causate dai droni volanti che cercavano talebani ed hanno ucciso invitati a matrimoni e ladri di carburante, rischia di esser, come fu My Lai per il Vietnam, lo spartiacque di una guerra mai vinta e già persa, della quale gli americani non capiscono più le ragioni, nella quale il nemico dichiarato, Osama bin Laden, è stato giustiziato in un Paese "amico", il Pakistan, protetto da militari "amici" ed amichevolmente finanziati dagli Usa.

La criminale follia di un americano "qualunque", che non può capire l'Afghanistan medioevale armato di kalashnikov che odia i suoi "liberatori", rischia di diventare l'inizio di una rovinosa fuga da un Paese alieno che vive i soldati "cristiani" statunitensi (ed ancor più le soldatesse) come un affronto inaccettabile, consapevole che nessun vincitore è mai uscito salvo dalla polverosa e glaciale trappola afghana, il deserto sassoso dove è cominciato il cedimento dell'impero britannico e che ha inghiottito l'Unione Sovietica. Una buca cieca che è già costata la vita a troppi dei nostri soldati, ad un'Italia sempre pronta a farsi trascinare supinamente in avventure coloniali di altri che ha già assaggiato amaramente il Vietnam irakeno e che ora è impantanata tra la droga ed i tagliagole dell'Asia centrale più ostile ed impenetrabile.

L'Afghanistan dal quale gli americani vogliono scappare, che porta alla follia e al genocidio di donne e bambini, alla disumanizzazione dell'altro in bersaglio e carne da sparo, sarebbe probabilmente niente rispetto all'altra guerra in Iran, nella quale i repubblicani statunitensi e la destra israeliana vorrebbero gettare il mondo mentre si bombarda Gaza e Bashir al Assad continua a massacrare i siriani.

Il Premio Nobel per la Pace ad Obama, il primo alle buone intenzioni, non è mai stato così anacronistico e la perdita di egemonia degli usa è visibile nelle impronte lasciate sulla carta insanguinata del Grande Medio Oriente, nel Grande Gioco impazzito che ha in palio il petrolio, il gas, il controllo dell'energia atomica e delle bombe atomiche e, soprattutto, l'influenza su Paesi che sembrano irriducibili all'esportazione della democrazia occidentale, rischia di diventare un deserto politico, la nostalgia di un equilibrio che non c'è più, terremotato da un multipolarismo frammentario in un mondo globalizzato solo economicamente, dove i paria, i Paesi canaglia, sono una variabile impazzita che dimostra l'impossibilità di risolvere con le armi quello che non si riuscì a spianare nelle foreste vietnamite con il napalm e i governi fantoccio. Kabul somiglia troppo a Saigon e l'Iran e la Siria rischiano di diventare nuovi Iraq che la vecchia e stanca potenza globale statunitense non può permettersi di accollarsi e tantomeno lo potranno fare i suoi alleati occidentali alle prese con una crisi economica sistemica. Anche guerre vinte, come quella libica, rischiano di trasformarsi in una sanguinaria anarchia tribale/pertrolifera, che restituisce alle ambizioni occidentali solo i debiti delle costose avventure militari.

La lunga transizione post-guerra fredda, la crisi del capitalismo finanziario neo-conservatore, le rivolte arabe finite in bocca all'islam politico, ci hanno portato su un crinale scivoloso: da una parte i soliti noti, i fautori della shock economy e della guerra come brutale bastone politico, per salvare la loro visione ideologica del mondo della quale non ammettono il fallimento, vogliono gettarci nel baratro di guerre e stragi di opposti integralismi, che potrebbero consegnarci un nuovo olocausto nucleare, dall'altra qualcuno (e sempre meno tra i leader) guarda davvero ad un mondo multipolare dove lo scontro delle civiltà ipotizzato diventi incontro delle differenze, comprensione dell'altro, nuovo umanesimo democratico, espansione dei diritti.

Dietro lo spaventoso sipario stracciato della My Lai afghana, nelle strade insanguinate della disperata rivolta siriana, nelle paure della gente di Teheran e Tel Aviv e dei nostri soldati blindati in terre straniere, nel fosforo bianco e nei missili killer che piovono su Gaza e nei razzi di Hamas che cadono sui villaggi del Negev, c'è la crisi politica, economica e ecologica del pianeta, la consapevolezza della finitezza delle risorse, l'eterna lotta per appropriarsene che riporta ogni volta alla barbarie. Dietro la crisi della democrazia occidentale e delle idee socialiste, si riaffacciano pregiudizi e razzismo, antisemitismo da piccole patrie, integralimi religiosi da crociate e jiad, egoismi che ricordano l'altro baratro in cui l'umanità fu spinta dal nazi-fascismo.

Quello che manca, e che si intravede solo in timidi lampi nel buio della politica e nell'ingordigia dell'economia, nelle intuizioni di leader senza masse e di movimenti senza leader, è una diversa lettura del mondo, della narrazione di come l'umanità possa risalire la ripida china che ci spinge alle stragi ed alla guerra, per ritrovare la speranza di un mondo più giusto nelle sue irriducibili diversità.

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