[24/05/2012] News

La tribù dei precarians. Disoccupati all'interno di una società atomizzata

«La vera società non esiste: ci sono uomini e donne, e le famiglie», ebbe a dire l'ex primo ministro britannico Margaret Thatcher. Da allora, cavalcando l'evoluzione della cosiddetta Reaganomics - la politica macroeconomica di stampo profondamente neoliberista inaugurata nel corso della presidenza Usa da Ronald Reagan, e importata dalla stessa Lady di Ferro su territorio europeo - questa affermazione si sta rapidamente trasformando in una profezia autoavverantesi, come spesso accade.

Fu il sociologo americano William Thomas, alla fine degli anni '20 dello scorso secolo ad elaborare il "teorema" che porta il suo nome, e riassumibile nell'espressione «Se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze»; così, goccia dopo goccia, col passare degli anni la nostra struttura sociale sta divenendo sempre più impalpabile, proprio sotto i nostri occhi. Scoprendosi soggetti atomizzati dal pensiero dominante, gli individui che la compongono non possono comunque resistere all'impulso comunitario che guida la nostra specie dagli albori della sua presenza sul pianeta, e si adattano a regredire da uno stato sociale ad uno che sarebbe forse più proprio definire come tribale.

Così, quel che davvero importa, quindi, è solo il barcamenarsi alla meno peggio dentro la crisi economica che viviamo, senza però cercare quella soluzione condivisa e dai presupposti solidali che, sola, potrebbe davvero salvarci; dalla logica dell'individuo a quella dello Stato-nazione e delle federazioni politiche. Ritrovare il senso di comunità - civile, d'intenti e di destino - all'interno dell'Unione(?) Europea implica un processo culturale parallelo che porti in primo piano la solidarietà anche all'interno dei singoli Paesi che la compogono.

Zygmunt Bauman - in un suo intervento su Social Europe Journal - scrive, riferendosi in particolare alle giovani generazioni, la generazione dei disoccupati, che non hanno «la più pallida idea, dicono, di ciò che il domani potrebbe portare», definendo poi i precarians come «i membri del precariato, la sezione in più rapida crescita del nostro mondo post-certezze e post-collasso creditizio. I precarians sono definiti dall'avere le proprie case (complete di bagno e cucina) erette sulle sabbie mobili, e dalla loro auto dichiarata ignoranza ("non ho nessuna idea di cosa potrà colpirmi") e impotenza ("anche se lo sapessi, non avrei il potere di deviare il colpo")››.

Ecco che i precarians - la fascia più debole del corpo sociale - si trovano a formare una tribù a sé, all'interno di una società evanescente. Esaurito il credito (psicologico, ma anche pecuniario) concesso loro, si trovano tagliati fuori dalla società del consumo, incapaci di acquistare prima ancora che di provvedere alla dignità della loro persona e della loro famiglia. Consumatori difettosi, per la megamacchina del finanzcapitalismo sarebbero a tutti gli effetti degli ingranaggi da buttare. E questo sarebbe lo sviluppo "inclusivo" che vogliamo? Eppure strade nuove da imboccare ci sarebbero.

Un'ottima soluzione da tentare per risolvere il problema angosciante del precariato e della disoccupazione sarebbe quella proposta recentemente dal sociologo italiano Luciano Gallino (alla quale abbiamo più volte fatto cenno anche su queste pagine), riassumibile nell'esigenza di creare una pubblica Agenzia per l'occupazione che possa mobilitare i cittadini disoccupati offrendo loro un'occupazione retribuita per portare avanti lavori sostenibili e socialmente utili. Ci pensa oggi Franco Debenedetti, dalle colonne del Sole24Ore, a sparare a zero contro questa proposta: «C'è anche chi (Luciano Gallino) pensa a una mega-agenzia che, assunti tutti i disoccupati, li spedisca a fare tutto ciò di cui si sente la mancanza, dal restauro di Pompei alla ripulitura delle città ai servizi alle persone: dimenticando che tutte le imprese hanno bisogno di un'organizzazione, e che è per carenza di impresa e di organizzazione che ci sono i disoccupati».

Ci permettiamo di porre la questione in modo diverso. La dimensione della manifattura italiana è seconda in Europa soltanto a quella della Germania, e il suo tessuto produttivo già ricchissimo di piccole e medie imprese; non sembra affatto, dunque, che la mancanza di imprese o di imprenditorialità sia la carenza del nostro Paese, quanto piuttosto la loro frammentazione e - soprattutto - l'incapacità di indirizzare la produzione verso il soddisfacimento di quelle che sono le esigenze della società: che sono appunto quelle di «ripulire le città» e offrire servizi alle persone, curare il nostro territorio e valorizzarne il patrimonio paesaggistico e culturale, riorientare la produzione industriale verso filiere sostenibili volte alla creazione di posti di lavoro nel settore del riciclo e della produzione di energie rinnovabili.

Quale ruolo ha il settore pubblico - e, più in generale, la politica e la democrazia - in questo contesto? Citando le parole dell'economista sudcoreano Ha Joon Chang, riportate dall'Espresso della scorsa settimana, «ogni sistema economico ha bisogno di regole. Il problema è quali si scelgono». Altro che liberalizzazioni.

 

 

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